"Lavorare meno, lavorare tutti", urlava negli anni '70 Gianni U., 24enne operaio. Nove anni prima, suo padre era emigrato dal Sud con moglie e tre figli: uno finito in ferrovia, una alle poste, il terzo alla madre di tutte le fabbriche: Mirafiori.
Nel '71, Gianni si è iscritto alla CGIL, ma dopo un giorno già gli stava stretta. Preferiva le assemblee e lo sciopero spontaneo alle alchimie dei burocrati. Per lui, "lavorare meno, lavorare tutti" voleva dire: odio la catena di montaggio, non sono un automa; voglio una vita fuori dalla fabbrica; c'è ricchezza per tutti, basta distribuirla equamente.
Nel 1976 Gianni si è sposato con Barbara, torinese, impiegata. Si sono conosciuti durante uno sciopero, lui l'ha invitata a vedere un concerto di Finardi, si sono fatti una canna e due anni dopo è nata Serena. Nel ‘80 Gianni è stato messo in cassa integrazione: la Fiat produceva troppo e i sindacati sono scesi a patti. Lui c'è rimasto male, ma dopo anni di inutili cortei, ha cercato lavoro altrove, anche perché la fabbrica, a dire il vero, non gli mancava affatto.
Nel 1988 ha aperto un bar con il fratello baby-pensionato delle FF.SS. Barbara si è licenziata, ora fa la cassa al bar e Gianni si è scordato la Fiat. Due anni fa Serena si è laureata in Ingegneria, ma sembra che della sua laurea non freghi niente a nessuno. La figlia di un barista non ha grandi raccomandazioni, così in due anni ha cambiato sei lavori, il più longevo è durato tre mesi. Ha fatto la segretaria, la contabile, la commessa e persino l'operaia. Suo padre le ha insegnato a credere nel lavoro, che è il lavoro che dà un senso alla vita. Lei non sa bene: fa volontariato e non si occupa di politica. Sa però che il 5% degli abitanti di questo pianeta controlla il 95% delle ricchezze.
Sa che negli anni '70 una persona doveva nella vita lavorare 40mila ore, che oggi sono diventate 100mila. Sa che non è felice. E ieri ha pensato che sarebbe bello e giusto lavorare meno e lavorare tutti.