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2005 — ARTICOLO Lavorare con saggezza - articolo

Sveglia ore 5.

Non fa freddo, una leggera pioggia fastidiosa. A piedi fino al metrò Pere Lachaise, tre fermate e si torna a galla. Vicino alla giostra di Place de la Republique sono già una ventina. Ne conosco una manciata. L’età va dai 20 ai 50. Maschi, per lo più. I dettagli dell’azione li conoscono in quattro. Gli altri eseguono, senza protagonismi. La convocazione era tassativa: 6 puntuali. Scarpe da ginnastica consigliate. Come per un trekking, o una scampagnata.

A sinistra del gruppetto in fumosa attesa, una manciata di poliziotti in borghese. Lampanti. Senza alcuna pretesa di fingere. Il loro capo parla incessantemente al walkie talkie. P., la mia guida, mi spiega che sono ausiliari senza porto d’armi, né alcun potere coercitivo. Si limitano a seguire le loro azioni e a informare i veri poliziotti. Appostati altrove, pronti ad intervenire. Uno degli ausiliari, zainetto sul davanti e berretto al contrario, lo conoscono ormai così bene che a Natale gli han mandato gli auguri a casa.

Il concentramento si ingrossa. Alle 6.30, quando la pioggia spinge il grosso sottoterra, sono ormai una sessantina. Tutti si guardano con elettrica circospezione: l’ansia prima dell’azione, il timore degli infiltrati, l’incertezza per l’esito. Sigarette come fossero condannati a morte.

Alle 6.45 qualcuno da il segnale. Si parte per il metrò, poliziotti dietro. Non faccio in tempo a capire qual è la linea su cui stiamo per salire. Al pagamento del pedaggio i primi scavalcano senza esitazione e bloccano le porte per facilitare quelli dietro. I poliziotti, invece di intromettersi, aiutano gli ultimi a passare senza perdere il contatto dal gruppo.

A diciott’anni, quando a Parigi venivo da studentello senza una lira in tasca, non scavalcavo per paura dei poliziotti, i temibili flics parigini (mi ricordo che una volta mi fecero il pezzo solo perché andavo al contrario sulle scale mobili). Adesso, a 45, che non ne avrei poi così bisogno dal punto di vista del budget, sono loro che mi aiutano a scavalcare più in fretta!

Sul treno tutti insieme nello stesso scompartimento. Sette, otto fermate. Si scende. Poliziotti a ruota. Vari corridoi, altri scavalcamenti di barriere per il pedaggio. Ogni tanto qualcuno si defila dal gruppo, come risucchiato da ignote sirene. Su un treno per la banlieu rimaniamo una quarantina. Tre, quattro fermate. Di nuovo a terra.

Una fonte ignota lancia il nuovo segnale: si corre. Poliziotti ad imitarci. Ma loro non devono aver letto il comunicato: non uno ha le scarpe da ginnastica.

La scorsa estate, i produttori Silvia Innocenzi e Giovanni Saulini mi hanno proposto di fare un documentario sul movimento dei precari dello spettacolo francesi noti come Intermittenti. Dal festival di Avignone del 2003 in poi, questa categoria di lavoratori ha inscenato clamorose manifestazioni contro la riforma del loro sussidio di disoccupazione (che gli permette di percepire un salario tra un contratto a tempo determinato e l’altro). Accusati da alcuni di essere dei privilegiati, gli Intermittenti conducono una battaglia non tanto in difesa del loro status quo, quanto per una riforma complessiva del sussidio di disoccupazione (che in Francia non è regolato dalla Stato, bensì da un patto tra sindacati e industriali), nonché per una politica moderna e egalitaria verso il lavoro precario a cui sempre di più il mercato ricorre per aumentare il proprio profitto. Critici della precarietà come intesa dal neoliberismo, gli Intermittenti sono in realtà strenui difensori del diritto al lavoro discontinuo, inteso come scelta di vita fuori dagli schemi del profitto e dalle regole sociali imposte dal capitale. Che le loro rimostranze non fossero del tutto campate in aria, lo ha dimostrato non solo l’ampia adesione che il movimento ha ottenuto nella fase iniziale, ma anche il fatto che il governo ha ammesso che la riforma presenta molte zone d’ombra (pur non potendo impedire che entrasse in vigore nel gennaio 2005) e che molti deputati, di entrambe gli schieramenti, oggi fanno riferimento alle loro proposte per una riforma complessiva dei lavori a tempo determinato.

Quando Silvia e Giovanni mi parlarono del progetto, inizialmente declinai l’offerta. I documentari propagandistici non sono la mia tazza di the e quelli di inchiesta non so proprio come farli. Poi, accadde che al festival di Venezia, prima della conferenza stampa del mio ultimo film, Lavorare con lentezza, un manipolo di loro mi chiese se potevano leggere un comunicato, così come avevano fatto a Cannes con Godard, Moore o Martone. Risposi subito di sì, assicurandoli sul fatto che non avrebbero avuto problemi. Spiegai loro che a Venezia il vero problema era la disorganizzazione, semmai la caoticità, non certo il rischio della repressione. Avevo ragione a metà: caos e disorganizzazione abbondavano, le manieri forti pure.

Infatti, appena uno di loro si avvicinò al microfono della conferenza stampa, non servirono a nulla i miei ripetuti inviti a lasciarlo parlare in quanto nostro ospite. "Caricati" dal timore degli attentati, dalla fobia della bomba, dalla presenza di Al Pacino nella stanza accanto, e probabilmente dall'avversione per questi smidollati intellettuali che frequentano il festival, i Signori del Servizio d'Ordine scattarono prontamente per impedire al portavoce di parlare e agli altri di sbandierare il loro striscione. Per fortuna la presenza della stampa e la solidarietà di gran parte dei presenti frenò i bollenti ardori dei vigilantes e tutto si risolse in un paio di ceffoni (da entrambe le parti) e dieci minuti di adrenalina.

Naturalmente, subito dopo mi misi a pensare a che razza di documentario avrei potuto fare.

La corsa dura esattamente tre minuti. Il tempo che ci si impiega a correre dall’uscita della metro all’ingresso di France Intel (la più importante radio pubblica francese), a entrare nel palazzo senza che nessuno della vigilanza intervenga, a salire 7 piani di ascensore e a raggiungere, seguendo le cortesi indicazioni di alcuni redattori (complici?), gli studi della diretta. Tafferugli? Feriti? Morti? Niente di tutto ciò. Gli addetti alla sorveglianza, presi alla sprovvista, non han perso la testa e son stati fermi. I lavoratori di France Intel si sono divisi tra i pro e i contro questa inedita forma di agitazione e hanno seguito con curiosità l’evolversi degli eventi. Gli ausiliari della polizia si sono limitati a controllare che nessuno si facesse male e ad avvisare dell’irruzione i loro colleghi ufficiali (per la cronaca bellamente gabbati: aspettavano gli Intermittenti altrove).

Quando poi gli Intermittenti hanno chiesto di intervenire in diretta nel corso dell’ascoltata trasmissione mattutina, la palla è passata completamente nelle mani di France Intel: se l’emittente non sporgeva denuncia, nessuno poteva più alzare un dito sui dimostranti. E nessuno ha sporto denuncia. Dopo un’ora di focosa trattativa, con parole grosse e reciproche accuse (gli Intermittenti che parlano di censura nei loro confronti e di mancanza di spirito di solidarietà; quelli di France Intel che rivendicano il loro curriculum immacolato in materia di lavoratori discontinui e invitano i dimostranti ad andare a occupare la sede della Confindustria), è stato concesso a due Intermittenti e a una ragazza di AC!, un organizzazione di disoccupati, di intervenire per una decina di minuti in diretta, dialogando con il noto conduttore Stephane Paoli e l’editorialista Alain Rey, titolare di una seguita rubrica di etimologia applicata. I dimostranti hanno esposto con forza le loro ragioni, senza censure o sotterfugi diplomatici.

Dopodiché, sempre sotto lo sguardo di un nutrito numero di poliziotti (ora anche veri), gli Intermittenti e i loro ospiti italiani sono scesi per le scale anti-incendio. Senza arresti, denunce, cariche o fermi.

Alle 8.45 l’ultimo degli occupanti ha lasciato tra gli applausi dei colleghi il palazzo di France Intel. Un cronista di un sito web, che aveva partecipato all’azione, tirato un sospiro di sollievo, ha chiesto all’ausiliario con lo zainetto e il cappello al contrario che tipo di poliziotto fosse.

“Un intermittente della polizia”, è stata la sua laconica risposta.

Il pensiero corre subito a Lavorare con lentezza, e più indietro, al 12 marzo 1977 e alla chiusura di radio Alice, l’emittente bolognese che del film è sfondo e spina dorsale. Possibile che in Italia la dissidenza attiva, la protesta vada sempre e comunque trattata in termini di ordine pubblico? E, parimenti, che menar le mani sia il terreno che frange dei movimenti, in mancanza di idee e stimoli, finiscono per adottare ogni volta che dall’altra parte sibila proditoriamente il manganello?

La Francia non è il paese di Bengodi. Certo, il loro concetto di democrazia è un po’ più radicato del nostro, ma non è che qui le forze dell’ordine siano più buone (lo stesso giorno, sempre a Parigi, una 40ina di sans papiers che occupavano una scuola ha conosciuto ben altro trattamento) o che i movimenti siano più pacifisti. Il punto è che, da una parte e dall’altra, l’altro giorno ho visto mettere in gioco una qualità rara nelle questioni che riguardano i movimenti sociali e le loro azioni dirette fuori dalla legalità: l’intelligenza.

L’intelligenza amministrativa di forze dell’ordine che sanno che il rispetto delle regole è un gioco è i primi a perdere sono loro e che mostrando i muscoli si fa il gioco dell’avversario, soprattutto se questo avversario è talmente saggio da non gonfiarli. 

L’intelligenza politica del movimento che decide che lo scontro fisico non serve a nulla in quel frangente, che la capacità organizzativa si misura in termini di serietà e efficienza, e che la risonanza pubblica dell’azione mette al riparo da qualunque indiscriminato intervento repressivo più di cento deputati al seguito.

Questo movimento non cambierà il mondo, ma il suo ruolo lo ha già ampiamente giustificato: i temi che ha sollevato sono ormai parte dell’agenda politica nazionale. Eppure, l’altra mattina erano in 60, anche se ai milioni sintonizzati su France Intel saranno sembrate armate di precari.

La logica dei movimenti, spesso, si rifà alla dialettica di forze opposte. Da una parte c’è il bene, dall’altra il male. Come se tutto dovesse essere giudicato in termini di valore assoluto e che la possibilità di differenziare un giudizio fosse sinonimo di un apparato ideologico fragile. Pensiamo ad esempio ai mezzi di comunicazione di massa radiofonica e televisiva pubblica oggi in Italia. C’è una vasta fetta di italiani che giudica inattendibile, inguardabile e inascoltabile tutto ciò che proviene dalla RAI, soprattutto in termini di informazione (tranne, si aggiunge, per le solite isole felici). In questo tipo di analisi, per molti aspetti basata su considerazioni anche sensate, spicca la negatività. La positività, invece, sta nell’idea che un giorno la RAI sarà “di nuovo nostra”, o che “bisogna costruire una rete di comunicazione alternativa”. Poli opposti, inconciliabili, irriducibili.

L’azione degli Intermittenti e la sua efficacia (milioni all’ascolto, ricaduta su giornali, radio e tv, rimessa in gioco della loro campagna contro la riforma, ecc.) mi fanno invece pensare a un atteggiamento diverso, tutto teso a cogliere le possibilità dove invece potrebbero dominare le negatività. Ovviamente France Intel non è la RAI, ma come la nostra Mamma di Via Mazzini, France Intel non è altro che un’azienda che gestisce dei vettori di comunicazione: questi vettori non sono né buoni, né cattivi. Essi appartengono alla collettività (la collettività a tutti gli effetti li paga), ma coloro che li gestiscono pensano di possederli. Quello che gli Intermittenti hanno fatto l’altro giorno è stato, per un breve attimo dal forte potere simbolico, di condividerli. O, come suggerisce Slavoj Zizek nel suo interessante Iraq (Raffaello Cortina editore), “la lezione politica di questo atteggiamento (o, meglio, l’implicazione) del riconoscere la rosa del sublime nella croce della volgarità di ogni giorno (nostro corsivo, la frase è di Lutero, ndr) non è mistificare la realtà esistente, dipingendola con colori falsi, ma l’esatto contrario: fare appello alla forza di tradurre la visione sublime (utopica) nella pratica di ogni giorno: in breve alla forza di praticare l’utopia”.

France Intel non è diventata la radio degli Intermittenti, ma per un attimo è diventata la radio che potrebbe essere.

Prima che Alain Rey chiudesse lo spazio accordato ai dimostranti con una brillante disquisizione sul termine atmosferico di perturbazione, paragonandolo all’azione degli Intermittenti (mi sa che il documentario sarà molto meteorologico…), il conduttore Stephane Paoli si è lanciato in un’accorata lamentela:  possibile che in Francia, per risolvere le questioni, bisogna per forza litigare sempre e ricorrere a mezzi poco urbani, come l’occupazione di una radio pubblica?

Caro Stephane, vieni da noi: non solo litighiamo per tutto, più e meglio di voi, ma se ti va bene una manganellata in testa prima o poi ci scappa!