• Guido Chiesa
  • Rumore

1993 — ARTICOLO Il mito americano - articolo

Ma che cos`è poi questo Mito Americano di cui tanto si parla? Credo che la risposta sia di una complessità tale che, per effettuare un analisi adeguata, saremmo costretti ad esulare dai limiti della nostra pur eclettica rivista. Diciamo quindi che, in via generale, il  Mito rappresentato dagli Stati Uniti è uno strano miscuglio di imperialismo e pulsioni anarchiche, scenari naturali e giungle urbane, Coca Cola e romanticismo noir, vecchie leggende e iperboli tecnologiche. E' un Mito, direbbe Pannella, transnazionale e transgenerazionale. Esso si è modificato col tempo, mantenendo però un'inalterata presa su gruppi di persone distanti sia geograficamente che epocalmente, provenienti da culture diverse e portatrici di ideologie spesso contrapposte. Basti pensare al controverso amore per l'America che ha permeato gran parte della Sinistra europea. Come spiegava il regista Jean Luc Godard, odiamo John Wayne perché in lui vediamo gli odiati reazionari americani, ma lo amiamo perdutamente quando indossa i panni del cowboy dei film di John Ford. Oppure, in campo musicale, detestiamo la "commercializzazione" imposta dalle grande multinazionali del disco, solo per essere i primi ad acquistare i prodotti confezionati dalle stesse major. Mistero e fascinazione del Mito Americano: credo che chi fra cent'anni studierà la nostra epoca, passerà la maggior parte del tempo a chiedersi come la cultura di un paese, nato poco più di quattro secoli fa, ha potuto imporsi su quella di nazioni dalle tradizioni millenarie. Oggetto di critiche furiose o acritiche adesioni, il Mito americano è entrato da almeno un decennio in una fase nuova, che senza averne intaccato il potere immaginario, ne ha radicalmente mutato la valenza. Ma prima di addentrarci nell'argomento, permettetemi una breve digressione, utile a meglio inquadrare la natura di questa mutazione.

Dallas, novembre 1962. John F. Kennedy, il presidente della Nuova Frontiera, simbolo dell'America liberal, viene assassinato dopo soli due anni di governo. Trent'anni dopo, più o meno negli stessi giorni, Bill Clinton, un altro esponente del partito democratico, vince le elezioni e entra alla Casa Bianca. C'è chi giura che Clinton sia il "nuovo" Kennedy e vede nella sua nomina, dopo dodici anni d'ininterrotta supremazia repubblicana, il segno di un' imminente rinascita del progressismo americano. Ma molta, forse troppa acqua è passata sotto i ponti e la Storia, per quanto le apparenze sembrino dimostrare il contrario, raramente si ripete uguale a se stessa. Non solo, infatti, le riforme sociali promesse da Clinton faticano a decollare per via della tenace resistenza dei conservatori, ma, soprattutto, l'auspicato revival della partecipazione popolare ai destini della nazione è lungi dall' essersi verificato (e la conferma è puntualmente giunta dalle recenti elezioni per i sindaci di alcune grandi città, vinte per lo più dai repubblicani e sostanzialmente svoltesi nell'apatia generale). Dopo la breve vampata di entusiasmo della campagna elettorale dello scorso anno (pensate: persino i Soul Asylum suonarono per il nuovo presidente!!!), l'America dell'era Clinton rimane una nazione disorientata e in crisi di identità. Il miracolo di un'ennesima Nuova Frontiera, insomma, non sembra destinato a ripetersi tanto presto. E le cause di una simile defaillance, a ben vedere, non vanno tanto ricercate nella diversa statura politica dei due leader o nelle pecche dell'indecisa amministrazione Clinton (del resto, anche Kennedy aveva avuto le sue gatte da pelare: il fallimento dell'invasione di Cuba e l'inizio del controverso conflitto vietnamita), quanto piuttosto nei profondi mutamenti avvenuti negli Stati Uniti nel corso degli ultimi trent'anni. Mutamenti che hanno inciso radicalmente sia sulla società americana al suo interno, sia, soprattutto, sulla sua immagine di nazione-guida del mondo occidentale. In altre parole, sul suo Mito.

A questo punto, ci potrei scommettere, qualcuno (forse molti) fra i lettori di Rumore si sarà domandato: "Ma che cosa c'entra questo articolo con un giornale di musica?". E soprattutto, si sarà chiesto con irritazione: "Che cosa c'entra la politica?".
Sul secondo dei quesiti il sottoscritto ha poco da dire. Non solo, infatti, la politica (come la filosofia, la religione, la scienza, ecc.) c'entra bene o male con tutto, ma basta dare un'occhiata anche solo superficiale ai rapporti tra musica e politica (voluti o meno dai musicisti, dichiarati o no: non è questo il punto) per capire che i due terreni non possono essere artificiosamente o idealisticamente separati. Del resto, anche il più sfegatato sostenitore dell' "A me piace la musica e di politica me ne sbatto", dovrà ammettere che anche questa, in fin dei conti, è una presa di posizione politica.
Mentre non posso fare altro che tranquillizzare tutti ribadendo che Rumore era e rimane una rivista di musica e culture limitrofe, mi piacerebbe soffermarmi un attimo di più sul primo quesito. Prendiamo, a mo’ d'esempio, gli Stati Uniti nei primi anni '60. Studiando quel periodo, non si fa fatica a capire che tra JFK e la comparsa di Bob Dylan, tra il concetto di Nuova Frontiera e l'ondata hippie, passano legami tutt'altro che occasionali. Mentre sarebbe ingenuo sostenere che l'elezione di Kennedy ha determinato l'evoluzione della cultura giovanile americana, ci pare corretto dire che la stagione della Nuova Frontiera e gli sviluppi della musica americana di quel periodo sono state altrettante risposte a un processo latente nella società americana, venuto poi a completa maturazione negli anni '60. Lo scambio tra le due sfere (storia politica e cultura giovanile) è stato costante e dialettico, ma inequivocabile.

Terminati i preamboli, veniamo al nocciolo della questione: che cosa è cambiato nel Mito americano? Qual'è la sua attuale identità?
I lettori di Rumore, come gran parte degli appassionati di rock degli ultimi trent'anni (ma il discorso varrebbe a maggior ragione per coloro che prediligono il country, il jazz o le altre musiche afro-americane), ascoltano suoni provenienti dagli Stati Uniti e, con ogni probabilità, consumano libri, fumetti, persino cibi e vestiti prodotti in quella parte del mondo. Come abbiamo visto precedentemente, non importa più di tanto quale sia la loro opinione politica sugli Stati Uniti: il loro contatto con il Mito americano è comunque quotidiano. Una buona ragione, mi pare, per occuparci dell'argomento.
Negli anni '60, i nostri fratelli maggiori vivevano questo Mito attraverso la lente d'ingrandimento della cosiddetta controcultura (la beat generation, gli hippies, la psichedelia, ecc.). Una lettura in gran parte facilitata dalla distanza allora esistente tra Europa e Stati Uniti. Mentre in Italia si andava ancora in '500 e la RAI trasmetteva su un solo canale, dagli Stati Uniti ci arrivavano le immagini e gli echi di un paese ormai prossimo a conquistare la Luna. Ma, grazie proprio a questa distanza, la distinzione tra cultura istituzionale e controcultura (l'underground) era in quegli anni netta, senza possibilità di equivoco. O, almeno così ci appariva. Poco importava che i più amati gruppi dell'epoca incidessero per delle grandi aziende capitalistiche: i buoni ci erano ben chiari e i cattivi stavano tutti dall'altra parte.
Negli anni '90, questa distinzione si è fatta assai meno precisa, i suoi contorni sfumati. E non solo perchè il sistema di vita americano ha penetrato il cuore della società europea, trasformandone radicalmente i costumi e i bisogni, ma anche perchè i nostri "buoni", a casa loro, non si sa bene più da che parte stiano. Il film Singles, tanto per citare una delle immagini della copertina, è un nostro film o no? Appartiene alla nostra cultura o è solo un volgare tentativo di commercializzare una tendenza giovanile nata da presupposti ben diversi? E questa tendenza, come l'abbiamo definita, non aveva già forse in se i germi della moda e del suo successivo sfruttamento commerciale? Ma se Singles non è dei nostri, perchè lo sono allora i Nirvana che incidono per una major, vanno su MTV e vendono la loro musica al pari di un qualsiasi gruppo pop? O i Soundgarden, che nella colonna sonora del film interpretato da Matt Dillon pure ci suonano? Dove sta la differenza?
Se dovessimo adottare dei criteri ideologici, forse ormai obsoleti, dovremmo dire che la differenza non esiste e che entrambe sono i prodotti di un'industria il cui unico fine è il profitto. A quel punto, gli unici "buoni" sarebbero gli irriducibili dell' underground. E, seguendo questo criterio, dovremmo buttare a mare anche Spike Lee e Oliver Stone, i Public Enemy e i Sonic Youth, Judgement Night e James Ellroy, ecc. Ma dato che immaginiamo che i lettori di Rumore non la pensino fortunatamente tutti così, crediamo che sia bene spingersi un po' oltre nell'analisi.

Andiamo con ordine. Fino agli anni '60 inclusi, ogni nuova fase dell'evoluzione storico-sociale degli Stati Uniti è stata segnata da una rielaborazione della sua filosofia di base, vale a dire,  da una rielaborazione dell'originaria ideologia dei padri fondatori della nazione. Ma, negli anni '60, qualcosa si è inceppato in questo meccanismo. Da un lato è intervenuto sulla scena un soggetto nuovo, che aveva ben poco a che spartire con il pensiero l'ideologia dell'americanismo: i neri afro-americani. In secondo luogo, la guerra del Vietnam - la prima che non vedesse il popolo americano schierato unanimemente dalla parte del governo - ha diviso gli americani come era accaduto solo ai tempi della Guerra Civile. La sconfitta nel sud-est asiatico, infine, ha creato per la prima volta negli americani la sensazione della propria vulnerabilità: una certa visione del Mito americano, come ben ci insegnano i film del pentito Oliver Stone, si è spezzata per sempre sul rive del Mekong.
La rivincita conservatrice degli anni '80, a ben vedere, è stata la prima importante evoluzione della storia moderna degli Stati Uniti in cui l'eredità dei padri fondatori (per quanto sbandierata da Reagan e Bush), ha avuto ben poco a che fare con la ristrutturazione socio-economica in atto. In altre parole, ciò che è accaduto negli anni '80, non ha avuto come fondamento primcipale una delle varie ideologie di cui è composto l'americanismo, ma si è prevalentemente affidata alla logica del mercato. Il primato del profitto ha impregnato ogni aspetto della vita politica, sociale, culturale. Anche l' underground ha dovuto fare i conti con questa trasformazione: pensiamo al dibattito su indie/major o ai dilemmi sollevati dall'ingaggio dei gruppi indipendenti da parte delle varie Sony, WB, BMG, ecc. La ristrutturazione è stata così profonda che anche i suoi avversari hanno dovuto, coscientemente o meno, fare i conti con la sua logica: la produzione (di macchine come di idee, di vestiti come di canzoni, ecc.) deve regolare l'ideologia, e mai viceversa.

In conseguenza di questo mutamento (di cui è troppo facile incolpare l'amministrazione Reagan: le cause sono molte più complesse e collettive), anche il Mito americano ha cambiato significato: esso ha sempre meno una valenza ideologica e sempre più il ruolo di un prodotto tout court. Quel Mito che fino agli anni '60 ha alimentato la nostra immaginazione (e le nostre vite) da qualunque parte della barricata stessimo, è adesso un contenitore di valori in cui la vendibilità del prodotto supera ogni necessità ideologica. Il prodotto è il "vero" Mito.
In questa luce, i contorni tra "buoni" e "cattivi" ci appaiono più sfumati: per usare un linguaggio da anni '60, possiamo dire che i buoni sono ora parte "integrante del sistema". Poco importa che Nirvana o Ice Cube, Pearl Jam o Neil Young, Slayer o Public Enemy siano nominalmente in contrasto con l'american way of life. Essi sono comunque merce nelle sue mani e, come tali, rappresentano la sua ideologia, più di quanto lo facessero venticinque anni fa i vari Hendrix, Doors o Velvet Underground. Sono prodotti che, per quanto antagonisti e "scomodi", coincidono con il progetto globale a cui è stata funzionalizzata la società americana.

Un'analisi di questo tipo rischia di apparire riduttiva e forse un tantino demodè se la si prende solo come un atto d'accusa al sistema americano. Non è questa la nostra intenzione. Prima di tutto, ci preme specificare che questa trasformazione non è stata affatto univoca o indolore. Anzi, proprio nell'elezione di Clinton va letta una significativa reazione a questo processo. D'altro lato, qui ci interessa soprattutto indagare gli effetti che questa trasformazione esercita su di noi, europei e consumatori di musica. Ebbene, noi tutti, credo, siamo ancor oggi convinti che tra Beautiful e Fai la cosa giusta o tra un disco di Michael Jackson e uno di Ice T vi siano delle profonde differenze, anche se, probabilmente, concordiamo con quanto detto in precedenza, ossia che tutti questi prodotti appartengono a una medesima logica di mercato. Il fatto è che queste profonde differenze non possono essere valutate solo più sul piano ideologico, perché è proprio questo il piano su cui è stato operato lo scarto. Prodotto da vendere più che bandiera ideologica, il Mito americano, infatti, adesso metabolizza meglio i suoi anticorpi. Ben poco, oggi come oggi, lo spaventa. Prendiamo un film come quello di Robert Altman, il celebrato Short Cuts (America oggi), ritenuto da molti un feroce atto d'accusa contro il vuoto di valori dell'odierna società americana. Per molti aspetti, il film è fermo agli anni '60 (Nashville, sotto quest'ottica, ci era apparso molto più in sintonia con i tempi). Altman affronta infatti la questione da un punto di vista ideologico e, in fin dei conti, ridondante. Così facendo, ci rivela poco delle ragioni profonde del disagio dei suoi personaggi e del deserto umano che mette in scena: intellettualizza e punta il dito, ma non si rende conto che il suo stesso film fa parte del gioco. C'e` forse più da scoprire sull'America odierna in una sola sequenza di modesti film quali Last Action Hero o Judgement Night (valori cinematografici a parte), che in tutte le tre ore di Short Cuts. Questi film, infatti, non nascondono la loro natura di prodotti e non si celano dietro le pretese intellettuali del discorso critico. Un po' come accade con il rap di Disposable Heroes of Hiphoprisy o il rock dei Sonic Youth: in essi c'è la coscienza di appartenere a una logica di mercato profondamente contraddittoria con il loro stesso messaggio. E, a ben vedere, è tutta qui l'inesauribile forza del Mito americano - che cambia pelle ma non perde efficacia - ma anche l'unica attuale via per una sua critica costruttiva: la coscienza di aver a che fare con un prodotto. Ne deriva quindi che i nostri strumenti di analisi devono per forza di cose essere aggiornati. Parole come commerciale o imperialista, ad esempio, perdono gran parte della loro valenza. La critica ideologica deve diventare critica del prodotto.
La riflessione sul Mito americano, soprattutto per un giornale come Rumore che così tanto spazio dedica alla cosiddetta cultura antagonist di quel paese, deve ripartire da qui. Per cercare di capire che le ingenuità di ieri non sono più ammissibili e scoprire magari che in Madonna o nei film con Schwarzenegger vi è molto più da imparare sull'America che in Bruce Springsteen, Robert Altman o nei politicamente corretti Rage Against The Machine.
Capire questa trasformazione del significato di Mito americano, credo sia importante non solo per meglio comprendere la valanga di prodotti ideologicamente contradditori che ci giunge quotidianamente da quel paese, ma anche e soprattutto per renderci conto dei mutamenti in corso nella nostra società, sempre più americanizzata.