• Guido Chiesa
  • Inedito

1996 — ARTICOLO I figli maggiorenni di Frank Zappa - racconto

Non so perchè all'età di tredici anni incominciai a interessarmi di Frank Zappa.
Deve essere stato quel buffo nome con reminiscenze contadine, oppure alcuni ingenui articoli ingenuamente letti su Ciao 2001, oppure ancora il sapore meravigliosamente proibito di parole come "iconoclasta" o  "anticonformismo". Ma sono solo supposizioni col senno di poi.
L'unico dato sicuro è che nella primavera del 1973 mi recai in un negozio di Piazza Castello a Torino e acquistai copia di Hot Rats, tuttora il mio disco preferito insieme a Grand Wazoo. Era il primo LP che compravo in vita mia, il secondo di cui entravo in possesso dopo il regalo di Space Oddity di David Bowie da parte di mia cugina Silvana.
Alcune settimane dopo, durante una festa pomeridiana tra amici di scuola, mi venne la malsana idea di appendere al  muro la copertina  di Hot Rats a mo' di poster. Incoscientemente, non ebbi la precauzione di riporre altrove il vinile. A un certo punto, il precario accrocco crollò a terra, determinando la rottura del bordo del disco per una decina di centimetri. Risultato: per circa dodici anni non sentii più Peaches In Regalia, ne` il suo corrispettivo sulla facciata B. Il resto del disco, però, lo imparai a memoria.
Ebbi modo di rifarmi all'esame per la licenza media. Quando tra i temi proposti mi imbattei in "Parla di un personaggio che ti ha profondamente interessato" non esitai oltre: Frank Zappa.
Presi il massimo dei voti, ma credo più per l'assoluta ignoranza da parte del corpo docente sulla figura del musicista californiano che per i reali meriti del mio tema. Per celebrare l'evento chiesi a mia madre di disegnare con il filo il volto di Zappa sulla chiappa sinistra dei miei jeans preferiti. Lei mi accontentò perplessa.

Mentre le mie ossessioni musicali presero a vagare su territori sempre piu` ampi, fino ad essere travolte dalla valanga del punk, il mio attaccamento all'autore di Uncle Meat incominciò paralellamente a declinare, raggiungendo una sorta di serafica consapevolezza: Frank Zappa sarebbe per sempre stato uno dei miei musicisti preferiti, ma la stagione della sua mitizzazione era tramontata con l'adolescenza, l'acne e le prime seghe. Ognuno ha i modelli giovanili che si merita.
Perso e indifferente tra i meandri di una paradossale inflazione produttiva, ripresi ad interessarmi dell'universo zappiano più o meno verso la prima metà degli  '80. All'epoca, il nostro compianto si esibì in alcuni autorevoli e al solito divertenti attacchi alle manie censorie del Parents Music Resource Center di Tipper Gore, moglie dell'attuale vicepresidente degli Stati Uniti, una donna che farebbe venir voglia di votar repubblicano al più sincero democratico. Zappa fu in prima linea a smontare le paranoie del PRMC, certo memore del destino subito una ventina di anni prima dal suo lp d’esordio Absolutely Free, nonchè coerente con il suo storico curriculum di paladino delle libertà civili.

Il definitivo reingresso del nome di Zappa nel raggio dei miei interessi accadde prepotentemente nel 1987, periodo in cui risiedevo negli Stati Uniti. Avevo appena venduto a due produttori la sceneggiatura di un film che avrebbe dovuto intitolarsi Tomesha. Nell’estate di quell’anno, i produttori decisero di far partire la pre-produzione. I miei compiti iniziali, in quanto regista, erano di preparare il cast e di effettuare i sopralluoghi.
Il film, per sommi capi, era la storia di un giornalista ex-premio Pulitzer, protagonista delle battaglie civili dei '60, poi caduto in disgrazia e, all’inizio della storia (ambientata nel 1989), povero in canna. Danny, questo il suo nome, attraversava gli Stati Uniti al fine di trovare nella Valle della Morte i discepoli sopravvissuti della setta di Charles Manson, tuttora vagabondi nel deserto alla ricerca del mitico mondo sotterraneo di cui il loro leader aveva vagheggiato. Nel corso del viaggio, Danny trascinava con sè una piccola carovana di emarginati e marginali, giovani e non, con cui, senza volerlo, riproduceva le dinamiche pericolosamente utopiche innestate da Manson & co. una ventina d’anni prima.
Charles Manson, per chi non lo sapesse, era stato condannato nel 1971 alla sedia elettrica (condanna poi tramutata all'ergastolo grazie all'abolizione della pena capitale nello stato di California) con l'accusa di essere stato il mandante dell'omicidio di Sharon Tate Polanski e di altre sette persone in due notti di sangue nell'agosto 1969. La strage di Bel Air, dal nome dell’ultra-chic quartiere di Los Angeles in cui c’era la villa Polanski, suscitò enorme commozione in tutti gli Stati Uniti, in particolare nel jet set californiano, colpito nel cuore del proprio star-system più “alternativo” (la maggior parte delle vittime erano assidue frequentatrici del mondo hippie). Il successivo arresto di Manson e della sua comune freak denominata la Famiglia creò ulteriori paranoie e isterie collettive: improvvisamente, la cosidetta controcultura giovanile appena anni uscita dalla sbornia libertaria dei ’60, incominciava a fare paura. La domanda che circolava insistente era quanto mai inquietante: il messaggio d'amore dei figli dei fiori aveva generato un mostro?

Ma torniamo a Tomesha. Dopo tre settimane di cast a New York e altrettante di sopralluoghi da una costa all'altra degli Stati Uniti, approdai a Los Angeles il 4 luglio per successivi tre giorni di provini. Tra le giovani attrici che la mia casting director mi propose per la parte della randagia Sonora vi era tale Moon Zappa, figlia del mio giovanile idolo. Non mi ricordo se la fotografia di Moon mi avesse particolarmente colpito o se fu solo il desiderio di incontrarmi a tu per tu con cotanto cognome, ma indicai senza esitazione la figlia di Frank  tra le attrici che avrei voluto provinare. Destino volle che il nome di Moon Zappa fosse al primo posto del mio calendario di incontri.
Invece, dopo dodici ore di provini, avevo visto tutti e di tutto, ma di Moon nemmeno l'ombra. Telefonai alla casting director per informarla: lei mi promise che avrebbe chiarito la questione e mise il nome della Zappa al primo posto degli appuntamenti del giorno successivo. Purtroppo, suo malgrado, Moon non si presentò nè il secondo, nè il terzo giorno, nè in testa, nè in coda alla giornata.
Al termine dei provini, avendo perso ogni speranza di vederla, chiamai la solita casting director al fine di ricevere delucidazioni in merito. Hellen, questo il suo nome, trovò finalmente la forza per confessarmi quanto sapeva ormai da tre giorni: il padre di Moon, alias Frank, mio idolo giovanile, paladino dei diritti civili, difensore accanito del diritto alla libertà di parola, nemico giurato dei censori, essendo venuto in possesso di copia della sceneggiatura di Tomesha, aveva impedito a sua figlia maggiorenne di incontrarmi al grido di: "mia figlia non avrà mai nulla a che fare con un film che anche vagamente parla di Charles Manson!". La figlia maggiorenne del paladino dei diritti civili, a quanto mi è dato sapere, non si oppose allo sfrontato intervento censorio.
Chissà, avrà pensato che ero un fanatico cultore del mito di Manson o, peggio ancora, uno di quegli stessi discepoli ad oltranza di cui io mi ero immaginato l'esistenza per scrivere la sceneggiatura di Tomesha. Va a sapere.
La mia unica soddisfazione, magra invero (il film, tra l'altro, non venne mai realizzato: i produttori non furono in grado di trovare i soldi), fu di sapere che io e il mitico Frank, sebbene in maniera alquanto bizzarra, eravamo entrati in contatto, che per un attimo le nostre vite si erano, per così dire, intrecciate. Che magari, in un momento di isteria paterna, aveva esclamato: "Who's this fucking Ghido Cheese!!!".