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2016 — ARTICOLO A CHE COSA SERVE CONTARE LE INQUADRATURE DI UN FILM?

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Gianni Rondolino per me è sempre stato il Professore. Fino ad alcuni anni fa, nonostante gli inviti in tal senso, non prendevo nemmeno in considerazione l’ipotesi di dargli del “tu”. Il pronome personale mi appariva il sintomo di un livellamento di ruoli che non c’era, né poteva esserci, tanto tangibile era la distanza gerarchica che aveva caratterizzato il nostro rapporto, così come manifesto era il mio debito nei suoi confronti.

L’ho conosciuto nell’autunno 1978, primo anno di Università, primo anno a Torino, io che della provincia portavo le stimmate e l’incoscienza. A quello stesso periodo risale la mia scoperta del cinema e il manifestarsi di una passione destinata a diventare mestiere. Sono convinto, senza piaggeria, che l’incontro con Gianni Rondolino abbia profondamente segnato questa scoperta, prima ancora nei modi che nei contenuti.
Per spiegarmi, faccio ricorso a uno dei tanti aneddoti di quel primo anno universitario, magari non tra i più significativi dal punto di vista degli insegnamenti, quanto emblematico di un approccio umano nonché professionale.

Durante una delle sue affollate e partecipate lezioni a Palazzo Nuovo, Rondolino ci aveva suggerito di andare a vedere l’ultima pellicola di Ingmar Bergman, "Sinfonia d'autunno".
Da bravo studente e elettrizzato neofita, avevo subito seguito il consiglio, ma, insensibile alla potenza espressiva e alle tematiche filosofiche del maestro scandinavo, devo ammettere di essermi annoiato fin dalla prima inquadratura…
Per spirito di disciplina non avevo abbandonato la sala, ma avevo bensì deciso di dedicare il resto della visione al conteggio del numero di inquadrature di cui era composto il film. Un po’ come esercizio didattico, un po’ per verificare quanto il Professore ci aveva spiegato in aula, ossia che il ritmo di un film è in gran parte legato al rapporto tra il numero delle inquadrature e la durata delle medesime. Non ricordo esattamente quante fossero, ma credo di averne contate all’incirca 350 (ad essere sincero, è l’unico elemento che rammento di quella proiezione, dato che non ho mai rivisto il lungometraggio in questione, né ho posto rimedio all’imperdonabile leggerezza con cui lo avevo liquidato “noioso” e “lento”. Sia chiaro, non ne vado affatto orgoglioso, anzi…).

Alla successiva lezione, Rondolino chiese quanti avevano avuto modo di vedere il film e che impressione ne avessero ricavato. Io, con l’impudenza di chi era abituato a prendere parola nelle assemblee studentesche e vinceva la timidezza con l’arroganza, non esitai a riferire quanto conteggiato, aggiungendo polemico che quello del grande svedese non mi sembrava cinema, perché il cinema è movimento, ritmo, velocità, dinamismo, mentre lì dominavano la staticità e il torpore.
Mentre tutt’attorno i miei compagni di corso giustamente ridacchiavano a cospetto di tanta insolenza, Rondolino si limitò ad uno dei suoi proverbiali sorrisi rotondi, di quelli che gli illuminano anche la nuca, e aggiunse: “Non credo che andare al cinema contando le inquadrature possa esserle di grande aiuto…”.
Touché, arrossii, ma non abbandonai la presa, insistendo su come lo stile di Bergman rappresentasse una sorta di anti-cinema, in cui il rifiuto del movimento (e del montaggio) portava ad una sorta di atrofizzazione del linguaggio cinematografico, dato che rinunciava all’esplorazione di quelle manipolazioni spazio-temporali che qualificavano il linguaggio del cinema rispetto a quello di altre comunicazioni artistiche (lo ammetto: non credo di aver utilizzato questi termini; sicuramente l’imbarazzo mi avrà impastato la bocca, nonché erano ancora lontani i tempi in cui avrei appresso termini quali linguaggio, codici, spazio-tempo, ecc.).
Rondolino questa volta non sorrise e replicò serio che il mio ragionamento, per quanto legittimo - benché certamente mal espresso - rappresentava in fin dei conti una certa idea di cinema, mentre il suo corso era, fin dal nome, destinato all’insegnamento della storia e della critica, non alla progettazione di un futuro fare cinema. Proseguendo sullo stesso tono, il Professore precisò che non poteva escludere a priori che dalle sue lezioni potessero emergere anche delle idee di cinema, delle progettualità professionali, ma non poteva essere questo l’orizzonte privilegiato della sua didattica. Il suo obiettivo era quello di formare una consapevolezza complessiva dell’evoluzione storica, culturale e linguistica del cinema, nonché di fornire ai suoi studenti strumenti di analisi critica che prescindevano in qualche modo dai singoli film o autori, ma riguardavano tutti i film e tutti i cineasti, di ogni genere, epoca e stile.

Più della specifica dichiarazione d’intenti - poi confermata da tutti i successivi anni di corsi, seminari e esami - quello che mi colpì nell’esposizione di Rondolino fu soprattutto l’entusiasmo. C’era un’effervescenza nella sua oratoria che trascendeva la figura accademica e coinvolgeva empaticamente le nostra individualità sul terreno pratico del confronto, del dibattito, dello scambio.
Non era una mera questione di carica emotiva. Usando un’espressione cara al Professore, il suo approccio “partecipato” chiamava in causa a tutto tondo le nostre energie e facoltà intellettuali, quasi per osmosi, perché per lui il cinema contava veramente, era qualcosa in cui valeva la pena credere. Non una semplice materia di studio o peggio ancora un mero esercizio filologico o accademico, ma uno strumento di indagine del mondo, un punto di vista in grado di rivelare il volto nascosto delle cose.

Sono convinto che la passione per il cinema che trasudava dal suo atteggiamento abbia giocato un ruolo significativo sulla mia decisione di intraprendere la carriera registica e sul mio modo di intendere la professione: il cinema per me è diventato un’occasione di autenticità.
Negli anni universitari il rapporto con Rondolino - per quanto mi riguarda, ma so di non essere il solo, penso ai miei compagni di corso, in testa Dario Tomasi e Giulia Carluccio - è sempre stato all’insegna di una dialettica professore-studente tutt’altro che univoca, talvolta conflittuale, dove l’allievo era chiamato a investire una forte quota di partecipazione (ben al di là del semplice curriculum di studi) e il professore non rinunciava a mettere in campo alcune tra le sue qualità più preziose: la disponibilità, l’ascolto, l’attenzione, talvolta anche la provocazione stimolante.
Quando gli ho proposto una tesi su una materia lontana dai suoi interessi e dal tipo di analisi critica da lui privilegiata - si trattava di uno studio dei generi cinematografici nell’epoca dello studio system - non solo non mi ha bloccato, ma anzi ha dimostrato una viva curiosità, al punto da dedicare all’argomento uno dei corsi successivi alla mia laurea. Non so quanto sia stato il mio input ad aver motivato quella scelta, ma è innegabile che Rondolino non ha mai rinunciato a farsi contaminare dai suoi studenti, a percorrere sentieri nuovi anche grazie ad essi, magari mettendo in discussione perfino sue precedenti ipotesi.

In tutti gli anni post-universitari, ho mantenuto con il Professore un rapporto analogo: dialogo, confronto, anche dissenso costruttivo. Non ha mai risparmiato critiche al mio lavoro quando le riteneva appropriate, né si è tirato indietro dall’indicarmi quelli che gli sembravano pregi e difetti dei miei film.
Sei anni fa, in quella che mi è sembrata una sua evidente imprudenza, mi ha affidato la stesura del “Manuale di regia cinematografica” per la collana UTET di cui era consulente editoriale. Non so se il volume che ho scritto è quello che si immaginava quando mi ha interpellato con la proposta, ma non ha cercato in alcun modo di frenare o modificare il mio approccio, lasciandomi libertà d’azione e, soprattutto, di ricerca. L’ha fatto pur sapendo che difficilmente non l’avrei ascoltato. Del resto, come avrei potuto ignorarlo? In fin dei conti, devo a lui se ho smesso di contare le inquadrature.