• Guido Chiesa
  • Duel

1994 — ARTICOLO Diario di un porno set - articolo

In cerca di ulteriori imbarazzi, dopo aver svelato le mie preferenze erotico-televisive, eccomi qui a mettere in piazza il mio passato di lavoratore del cinema porno. E` accaduto dieci anni fa, di questi tempi, negli Stati Uniti, quando si incominciava appena a parlare di AIDS, il cinema porno veniva girato ancora in pellicola e il genere non aveva ancora rinunciato ad ogni pretesa narrativa. Non conoscendo bene l' attuale situazione del settore, può darsi che quanto racconterò rappresenti per molti come una sorta di reportage archeologico. Anche se mi immagino che, almeno dal punto vista umano, l'esperienza esistenziale del porno non possa essere cambiata più di tanto... 
Come molti, al porno vi ero arrivato per denaro. Era da poco meno di un anno che vivevo a New York e i guadagni ottenuti lavorando nei film o come corrispondente delle riviste italiane non bastavano a pagare l'affitto. Quando un amico mi propose di lavorare come assistente alla regia in tre film porno, considerando che si trattava di un impegno di breve durata (dodici giorni di riprese in tutto) avevo accettato di buon grado. Ero arrivato all' appuntamento decisamente impreparato: non ero mai entrato in un cinema a luci rosse, avevo visto prima di allora sì e no 4 o 5 videocassette e conoscevo poco le riviste del settore. A dire il vero, dal punto di vista organizzativo non c'era molto di diverso da una normale produzione, eccettuato il fatto che tutto avveniva in completa economia. I tre film venivano infatti girati nel medesimo ambiente, con scenografie a bassissimo costo e con una troupe di circa dieci persone: il principio produttivo seriale dei generi holliwoodiani portato alle estreme conseguenze. Il regista (che se non mi sbaglio si firmava Art Pacard; gli appassionati del genere lo conoscono certamente) era anche il secondo operatore delle scene di sesso, girate sia con la macchina da presa silenziata, sia con la rumorosa Arri 2 (durante queste scene, infatti, non si registrava il sonoro che veniva poi doppiato). Tranne la figura della segretaria d'edizione (che qui era anche addetta anche alla pulizia personale degli attori), tutto il resto si svolgeva nei canoni di una qualunque produzione cinematografica.
La vera novità era rappresentata dagli attori. Belle e generalmente simpatiche le attrici (tra cui la star Ginger Lynn), scemi e assai poco affabili gli uomini. Quasi tutti malati di sesso, in particolare quest'ultimi. Il gusto e il trasporto con cui scopavano era decisamente sorprendente: con rare eccezioni, il luogo comune secondo cui gli interpreti porno fingono mi apparve decisamente errato. Il bello era che le loro attività sessuali non si limitavano al solo set: le donne, per mantenere le erezioni degli uomini, non esitavano a fornire prestazioni tra una ripresa e l'altra (vi lascio immaginare con quale imbarazzo li dovevo interrompere per chiamarli in scena...). In particolare, mi ricordo che durante alcune scene lesbiche l'orgasmo delle attrici era così reale da rendere difficile al regista ogni forma di "controllo" sulle inquadrature.
Controllo che è invece fondamentale nel cosiddetto money shot, vale a dire la ripresa della eiaculazione maschile. La documentazione di questo atto è la chiave fondamentale del porno: tutta l'organizzazione delle riprese ruota attorno a questo evento. Ad esempio, mi ricordo che con l'attore Johnny 19 (nome derivato dalla misura del suo membro), avendo un'eiaculazione veloce, si provvedeva prima a filmare la fuoriuscita del seme, per poi passare, riottenuta l'erezione, alla ripresa vera e propria dell'amplesso.
Ma più che tra maschi e femmine, o tra arrapati e  simulatori, la vera differenza passava tra attori protagonisti e comparse. Come infatti accade in tutte le professioni del mondo, mentre le star godevano di egregie condizioni professionali, i comprimari erano letteralmente carne da macello. Nel primo caso si poteva assistere ad incidenti buffi, come quello di quando ero passato in albergo a prendere Ginger Lynn per portarla sul set, solo per scoprire che la ragazza aveva passato la notte sullo yacht di un ricco arabo e che non era ancora tornata in camera (vi lascio immaginare chi la pagasse meglio). Risultato: il ruolo della protagonista era passato alla spilungona Raven e per quel film Ginger aveva fatto la guest star. Nel secondo caso, invece, ci si imbatteva in veri e propri drammi umani. Come quello dell'attrice talmente fatta di free base (cocaina allo stato puro) che il regista scommetteva che sarebbe riuscito a farla inculare senza che se ne fosse accorta. O quello dell'attrice che, dopo aver accettato di farsi scopare da un nero (dopo il rifiuto della star: "niente animali o neri",  prevedeva il suo contratto) ed essersi ubriacata per l'occasione, aveva scoperto di essere stata fregata economicamente dal produttore ed era stata cacciata piangente dal set.
Questo strano coacervo di tragedie e farse, biechi sfruttamenti e nevrosi sessuali elevate a talento, è di un impatto tale che solo una persona particolarmente insensibile, o a sua volta nevrotica, può rimanerne indifferente, o peggio ancora sedotta.
Da allora non riesco più a vedere un film porno senza pensare a quelle cinque/dieci persone che, mentre gli attori si intrecciano, sono lì che aspettano, armate di cinepresa, microfoni e proiettori al quarzo, l'eiaculazione di quel tizio che ci sta dando dentro come se quella fosse la migliore scopata della sua vita...
Da allora, ogni mitologia e esaltazione della pornografia mi pare frutto di una doppia mistificazione e rimozione: quella delle ferite, consapevoli e non, di chi sta sullo schermo e di chi guarda, tutti magari convinti che sia il loro libero desiderio a spingerli lì, e non la frustrazione di quello stesso desiderio.