di Federico Chiacchiari
Il '77 è un territorio minato. Troppe storie diverse, troppe esperienze, troppe visioni possibili... Ma Guido Chiesa è tenace, consapevole delle difficoltà e realizza un film assolutamente indefinibile, impalpabile, quasi sospeso tra la ricostruzione delle atmosfere e l'annegare dentro le storie e i conflitti intimi dei suoi personaggi.
Ci vogliamo domandare, innanzitutto, perché sul '77, di fatto, non esistono praticamente film mentre, sul '68 e dintorni il cinema è strapieno di storie e immagini e racconti? Ok il '68 è un fenomeno planetario, ma anche il '77 non fu solo cosa nostra. E poi quasi tutti i protagonisti di quegli anni non sono forse finiti a fare i creativi in pubblicità, cinema, arti visive, oppure scrittori, disegnatori, fumettisti, artisti multimediali, ecc...??? E allora con tanto materiale umano disponibile, materiale artistico e creativo appunto, come mai il silenzio cinematografico?
Ma il silenzio non è solo cinematografico. Il '77 appartiene a una generazione derubata. Derubata non solo dei sogni, dei bisogni, delle speranze di vivere un’ altra vita, di creare altri mondi immediati, qui e ora e non in un avvenire con il sole e tutte le mitologie socialiste precedenti. Quella del '77, che pure aveva fatto del furto/riappropriazione quasi una moderna mitologia di liberazione dall'universo delle merci, è una generazione che è stata derubata della propria storia. E' quella di un immaginario rubato la storia del '77, periodo tra i più complessi e indecifrabili della nostra storia recente, ormai consegnato alle cronache della storia come gli anni di piombo, gli anni in cui qualcuno voleva tutto e subito e prese le armi pur di averlo. Quante sciocchezze... Eppure quegli anni, tra il '76 e il '78, furono anni fertilissimi, dove spuntarono i germi di quelle che sono le riflessioni più avanzate di oggi, e non è difficile pensare che molte delle cose che facciamo crediamo immaginiamo oggi sarebbero state impossibili senza quell'ondata di liberazione sotterranea dei quel periodo. Internet, la comunicazione orizzontale, l'occhio creativo sul mondo, il privato come centralità politica della vita, queste e altre storie cambiarono il mondo interiore delle persone assai più di tanti anni di slogan e manifestazioni. Poi arrivò uno sparo, un corpo caduto in terra colpito da una pallottola, e tutto si trasformò nell'epica della guerriglia e della disperazione. E da 27 anni non c'è un film (italiano) che abbia potuto saputo raccontare qualcosa (l'unico gioiello è uno sguardo dal di fuori di un fratello maggiore, il magnifico La tragedia di un uomo ridicolo di Bernardo Bertolucci).
Oggi, 2004, con una spericolatezza di uomo libero, ci prova Guido Chiesa, classe 1959, che necessariamente ha vissuto sulla propria pelle le dinamiche interiori (ed esteriori) di quegli anni, dove i protagonisti non erano più i figli della ricca borghesia che si ribellava ai propri genitori ma coloro che approfittavano di quell'attimo di scolarizzazione di massa, giovani figli di operai e delle classi povere, che fecero nascere la definizione di "proletariato giovanile". Gente che non finirà a condurre talk show televisivi o in parlamento, ma che dovrà faticare a lungo per riuscire a sopravvivere, fisicamente e mentalmente, alle difficoltà della vita quotidiana. E Guido è uno che non ha certo ereditato soldi e cinema come la maggior parte dei figli di papà che fa cinema oggi in Italia (e lo diciamo senza alcuna vocazione moralistica, anche Bertolucci è stato un privilegiato in questo senso), e da questo punto di vista è forse il cineasta italiano più adatto a raccontare quell'epoca. Anche perché Guido ha già percorso l'esperienza di Radio Alice in quel bel documentario di un paio di anni fa, Alice è in Paradiso, dove con uno stile del tutto dentro le dinamiche creative del '77, raccontava l'esperienza della radio bolognese con un cinema divertito e (auto)ironico, visionario e "saltellante".
Ma il '77 è un territorio minato. Troppi critici e appassionati di cinema vengono da lì, e nessuno sembra disposto a farsi rappresentare da altri. Troppe storie diverse, troppe esperienze possibili, troppe visioni possibili, e poi se c'è un linguaggio che meglio ha raccontato il periodo è sicuramente il fumetto, non il cinema. E c'è più cinema in una tavola di Andrea Pazienza che in tutto il cinema italiano degli ultimi 20 anni.
Ma Guido Chiesa è tenace, consapevole delle difficoltà del soggetto, realizza un film assolutamente indefinibile, impalpabile, quasi sospeso tra la ricostruzione delle atmosfere e l'annegare dentro le storie e i conflitti intimi dei suoi personaggi. E poi, tanto per complicarsi la vita – ma era così il '77: complicatissimo e incasinato – ci mette dentro anche la storia di uno, anzi due carabinieri, di un ladro che organizza un colpo in banca, di un avvocatessa di soccorso rosso che vive liberamente le sue storie sentimentali e sessuali. E poi le storie private di due “sfigati” proletari di appena fuori città, Bologna, “la rossa”, il cuore del “comunismo italiano”, dove la rivolta passa sotterraneamente come i fiumi nascosti della città, che per vederli un tempo c'erano delle apposite e segretissime finestrelle... Ma come raccontare tutto quel coacervo di bisogni, desideri, conflitti interiori ed esteriori che passarono dentro dei corpi ormai mutanti e mutati di giovani che avevano perso il treno della rivoluzione e non avevano più voglia di stare dietro alle ideologie e volevano cambiare il mondo ovvero se stessi a partire dal modo di immaginarsi? C'è tanta fottutissima banalità in quelle vite quotidiane, in quei dialoghi che sembrano voler raccontare tutto e si perdono nelle gelosie piccolo borghesi, in quei collettivi dove l'esplosione creativa si materializzava all'interno di contenitori ormai esplosi nelle loro forme obsolete. L'immaterialità del '77 è tutta in quest'impossibilità di rappresentazione, gli “invisibili” furono chiamati, e Guido Chiesa per un attimo prova a violare questo tabù dell'irrappresentabile, entra dentro i corpi di Sgualo, Pelo, Pigi e gli altri, prova a farli vibrare ma sa bene che è storia impossibile, che le vibrazioni di allora sono irriproducibili. E allora, quanto meno, prova a mettere dei punti fermi: e per la prima volta vediamo raccontata la morte di Francesco Lo Russo come nessun magistrato si è mai sognato di voler vedere, e vediamo quell'impeto quella rabbia quella follia collettiva che tutti prese, fino a coinvolgere anche i più pacifici che, di colpo, si ritrovarono con dei pezzi di selciato nelle mani e a lanciarli contro quegli altri proletari in divisa dei carabinieri. E qui Chiesa ce la mette tutta a raccontare anche gli altri (punti di vista). E la storia del Tenente Lippolis (Mastandrea, uno dei pochi attori italiani che non abbia un volto/corpo televisivo), che vorrebbe indagare sul delinquente Marangon (Valerio Binasco, tanto di cappello alla sua interpretazione!) e che invece si ritrova suo malgrado a guidare le truppe nelle strade del centro bolognese, colpevolmente testimone e forse responsabile di quella morte che cambierà per sempre tutto. Perché se c'è un merito nel film di Chiesa sta soprattutto nel riuscire a individuare questo scarto, questo territorio di confine che c'è tra il 1976 fino all'11 marzo e il periodo successivo. Chi ha vissuto in quegli anni e aveva più di 15 anni sa di cosa stiamo parlando. Bisogni liberati, teoriche del desiderio, ironia e critica della militanza, politicizzazione del privato, esplosione della creatività e necessità di riconfigurare il mondo non più sull'epica della centralità del lavoro (come la Costituzione Italiana dei nostri padri, che la fondarono sul lavoro) ma semmai sul suo rifiuto e sulla centralità della “ricerca della felicità”, così americana e hollywodiana (solo apparentemente paradossalmentente...).
Lavorare con lentezza prova ad esplorare l'universo '77 cercando di raccontare storie minimali, pur innestandole dentro la Storia, le manifestazioni e gli scontri di piazza, focalizzando il tutto dentro quel contenitore di voci, espressioni, colori e suoni che fu Radio Alice, la radio che diede la voce a tutti, dove tutti potevano parlare e dire la loro. E si parlava di politica, dei prezzi al mercato come della storia con il ragazzo o la ragazza che ti ha lasciato, delle sessualità come del comunismo, in un delirio post-dadaista folle e surreale (più che surrealista). Chiesa ci prova a raccontare quelle voci, cerca di lavorare sui corpi, sulle materializzazioni dei desideri, sulle paure e frustrazioni, le traiettorie di fuga, la volontà di scardinare il micromondo oppressivo (la famiglia la fabbrica il lavoro dei padri che no, proprio non si voleva più fare), e si perde in questi racconti e personaggi, e se la rabbia di Pelo e Sgualo, i loro sguardi allucinati e disperati raccontano mille cupezze e tristezze, le storie di Marta e Pigi appaiono ridicole e banali, ma quanta banalità c'è sempre nelle nostre vite quotidiane, nelle nostre storie che tendiamo a mitologizzare, perché tutto era bello, tutto rivoluzionario, e poi invece si litigava e piangeva e soffriva come sempre, come prima, come ora...
Alla fine resta un film che non può rappresentare niente, perché come puoi rappresentare l'invisibile? Ma va detto che Chiesa ha fatto, forse, il meglio che si poteva fare, lavorando sui colori (sporchi e freddi come li ricordiamo nei film di allora), sui suoni (e sappiamo che lì è competente come pochi), sulle parole scritte e dette, ma anche lui sa bene che non si può non si può non si può, e allora prende i volti e i corpi e li spezzetta in un multi split-screen ,con le musiche che coprono i dialoghi nella miglior tradizione hollywoodiana. E fa bene, perché non c'è una storia simbolo da raccontare, e Radio alice era già piena di tante storie possibili, e allora chissenefrega di Bifo che fa il cameo, del carabiniere scemo che ascolta la radio per mesi e alla fine lancia un proclama dalla radio appena chiusa, della Claudia Pandolfi che non è ancora uscita da Un medico in famiglia, e da un Mastandrea soffocato da una storia dove non sembra trovare spazio? Lavorare con lentezza saprà anche dissipare le sue potenzialità nei mille rivoli errori della storia, ma lo fa con una sincerità e un'emozione interiore fino ad oggi sconosciuti al cinema italiano. Non lancia ami, ne segue voluttuosamente il “Procacci Style”, ma si perde nei meandri una storia impossibile, nel regno assoluto dell'irrappresentabile. Ed forse l'ultima libertà rimasta a un movimento che era punk senza neppure sapere di esserlo.