di Massimo Calanca
"L’utopia è simile all’orizzonte: se fai cinque passi per avvicinarti si allontana di cinque passi… Però serve a farti camminare in avanti"… … "L’arte, piccola o grande che sia, mantiene viva l’utopia e la traduce in forme concrete nella realtà…"
Queste frasi, che riportano – per quanto possa essere fedele la mia memoria di spettatore – le parole pronunciate da Pietro Perotti durante le sequenze finali di Non mi basta mai, hanno dato fastidio a qualcuno degli spettatori intervenuti all’anteprima del film-documentario di Guido Chiesa e di Daniele Vicari al Nuovo Sacher. In particolare a Rossana Rossanda, che – pur lodando il film – ne ha criticato il finale per l’illusoria indicazione di una possibilità di impegno responsabile a livello individuale con cui viene interpretata la vicenda dei cinque protagonisti. Il documentario di Chiesa e Vicari, infatti, tratta la vicenda di cinque ex operai della Fiat – Pasquale, Vincenzo, Ebe, Gianni e Pietro Perotti – impegnati nelle lotte sindacali degli anni ’70 e licenziati dall’azienda dopo la sconfitta dello sciopero ad oltranza che, per opporsi al licenziamento di 15.000 lavoratori, bloccò la fabbrica per 35 giorni. I cinque oggi vivono, ciascuno in modo diverso, altre situazioni di impegno sociale e civile: chi in una cooperativa di pescatori, che intende difendere non solo il lavoro dei soci ma anche l’ambiente marino, chi come assistente sociale per i giovani, chi come terapista di riabilitazione e sindacalista, chi in una attività di volontariato per la cooperazione con il Terzo Mondo, chi come animatore per bambini.
Ma è proprio questo indicare le nuove forme assunte dall’impegno civile e culturale dei cinque, dopo la dura sconfitta di venti anni fa, e dunque le nuove forme che ha assunto il loro bisogno di utopia, che secondo me – e secondo la gran parte degli intervenuti all’anteprima, da Pietro Ingrao, A Diego Novelli, a Citto Maselli, a Vittorio Taviani, al pubblico che ha molto applaudito – rende bello e significativo il film e ne giustifica le scelte formali e di linguaggio, anche al di là della materia importante che esso affronta. Il lavoro di Chiesa e Vicari, infatti, ha certamente il pregio particolare di documentare il conflitto di classe nella "fabbrica fordista", cioè nel luogo fondamentale della contraddizione e del conflitto di classe del ’900, come forse nessun altro film italiano ha fatto (lo ha sottolineato Ingrao, citando come eccezione del cinema mondiale il geniale Tempi moderni di Chaplin). Ma, a mio parere, la vicenda dei cinque ex operai acquista un valore che va oltre la pur efficace ricostruzione delle lotte operaie degli anni ’70 alla Fiat e di una sconfitta che ha segnato una svolta nella storia del movimento operaio e del nostro paese; e lo fa proprio grazie al contrappunto continuo con le loro attuali scelte ed esperienze di vita, che mostra l’irriducibilità della loro voglia di impegnarsi per cambiare la storia, anche soltanto nel "piccolo" della loro esistenza quotidiana.
E’ questo che rende il film capace di parlare "all’oggi", ai giovani che non sanno niente di quelle lotte e a tutti coloro che vivono con disagio in un mondo dominato da tendenze omologatrici, dalla competizione individuale, dall’egoismo e da un’assenza di spiritualità e di cultura capaci di dare senso alla vita. Mostrare lo svolgimento e le contraddizioni delle lotte operaie di quel periodo, infatti, non avrebbe altro significato che quello di una riflessione retrospettiva sugli errori di un certo massimalismo (che ha determinato la lotta ad oltranza con la chiusura della Fiat); o, al contrario, sulla debolezza di una prospettiva riformistica legata alla politica di "unità nazionale" del PCI di allora. Non uscirebbe cioè da un dibattito storico-politico, interessante quanto si vuole, ma irrimediabilmente legato ad un passato che difficilmente tornerà attuale; e quindi sarebbe di scarso interesse per chi ha "il problema" di vivere oggi e di immaginare il futuro.
Al contrario, la scelta degli autori rende quella storia viva e palpitante. Da un lato in quanto bagaglio culturale e di esperienza di cinque persone concrete, che – sebbene "sconfitte dalla storia" – non hanno rinunciato a vivere e a cercare di dare un senso alla vita tentando di trasformare la realtà. E, dall’altro, perché la vicenda delle lotte operaie appare una delle forme storiche che ha assunto il bisogno di utopia, il quale attraversa la storia come un fiume "carsico", che ogni tanto sembra scomparire sottoterra, per poi apparire in altra forma in un diverso territorio.
Oggi quel territorio forse non è la lotta sociale e politica di massa, ma l’impegno individuale responsabile per il cambiamento "qui ed ora", dove la vita ci ha condotti a vivere la nostra personale esistenza. Impegno etico-pratico, che si esprime in forme diverse per ciascuno di noi, e che per ora deve scontare spesso l’isolamento, in assenza di spazi e forme di coscienza e di lotta collettive.
Ma la mancanza di tali spazi – come hanno sottolineato Daniele Vicari e Guido Chiesa, quest’ultimo riprendendo le argomentazioni già espresse in un dibattito di CinemAvvenire a Venezia sui "contenuti, stili e linguaggi" di un cinema che aiuti a capire la vita e a viverla meglio – non rende impossibile o inutile l’impegno civile, sociale e culturale degli individui. Lo rende però più debole e meno incisivo. Per cui non bisogna rinunciare a cercare nuovi spazi e forme della coscienza collettiva, dato che quelli del passato non esistono più.
Non c’è nessuna nostalgia, nel film, di un passato che non può tornare. Ma attraversamento del dolore e della solitudine causate da quella crisi, per approdare a nuove scelte individuali di impegno e di responsabilità; e per ricercare nuove forme dell’utopia anche a livello collettivo.
Dove la politica ha fallito – come la filosofia, la religione e tutti "i grandi racconti sul mondo" – l’arte può dare un contributo di novità. Non è essa l’attività umana per eccellenza che ha cercato, in ogni tempo e luogo, di dare forme sempre nuove all’utopia?
E il cinema, che è l’arte del nostro tempo, può essere un "media" importante, attraverso cui il dialogo tra spettatori ed autori assuma la forma di una coscienza collettiva in divenire ed in crescita costante, che apra la strada alla ricerca di nuove forme di coscienza, di impegno e di lotta – civile, sociale e culturale – adeguate alla realtà contemporanea e futura.
Le scelte linguistiche e formali del film-documentario di Chiesa e Vicari – come ha sottolineato anche Pietro Ingrao, che ha scherzosamente ricordato la propria cultura cinematografica, prima che politica – sono pienamente coerenti con quelle contenutistiche e narrative. Infatti, ricostruiscono come un puzzle il disegno che unisce gli spezzoni di una storia frantumata dalla sconfitta (ben rappresentati dai brani di film in super-otto di Perotti), ai frammenti di vita di cinque esistenze individuali tra loro isolate e lontane, in un unico cerchio ideale unificato dalla ricerca dell’utopia, della creatività e della solidarietà umana. E anche certi accostamenti bonariamente scherzosi, così come qualche breve inserto disegnato, non sono furbizie accattivanti o cedimenti alle mode, ma piacevoli spunti autoironici che richiamano la dimensione del gioco, come componente importante per rendere più lieve una ricerca che, per tanti aspetti, ha una dimensione tragica. E in questo modo rafforzandone l’autenticità. Non prendersi troppo sul serio, cioè, per evitare la retorica e fare davvero sul serio. Come hanno fatto sul serio gli autori, coinvolgendosi in una ricerca che riguarda innanzitutto loro stessi e le loro scelte di lavoro e di vita; e come hanno fatto i produttori e tutti i professionisti che hanno lavorato al film, con un impegno che ha comportato spesso anche scelte di volontariato. E come adesso sta facendo anche il distributore Arcopinto, con la scelta coraggiosa di portare il film-documentario nelle sale.
E’ un’operazione rischiosa, ma non impossibile o velleitaria.
E’ già riuscita con successo al film di Wenders Buena vista social club, per molti aspetti diverso da Non mi basta mai, ma per altri con forti analogie: perché ricerca ed esprime in modo coinvolgente – diventando da documentario film – una realtà vitale che tende ad essere ignorata, pur riguardando direttamente molte persone concrete e, indirettamente, tutti quelli che cercano strade nuove per il loro bisogno di autenticità e di utopia.
Per questo è una scelta che va incoraggiata e sostenuta e che è destinata ad influire positivamente sul cinema e sulla cultura italiana.