di Riccardo Ventrella
Dicono che il cinema italiano manchi di coraggio. Che sia carente d’immaginazione. Che non sappia più rapportarsi con la storia o l’attualità di questo paese. Guido Chiesa la pensa forse in maniera diversa. Etichettarlo come regista militante sarebbe contrario alla sua formazione eclettica, agli interessi per musica e letteratura. Alla Resistenza Chiesa si è interessato sin dai tempi di Materiale Resistente, impegno documentario che metteva importanti rock band italiche a confronto con le testimonianze dirette di quel controverso periodo. Da questa vocazione, e dalla passione per la scrittura di Fenoglio nasce il progetto Partigiano Johnny. Che si tratti di una scommessa, è chiaro sin dalla scelta del testo. Difficile, oscuro, incompiuto, postumo, rappresenta la complessità dell’universo fenogliano. Con molte vie d’uscita possibili, se solo si pensa che attraversa una temperie, quella della Resistenza, ancora irrisolta dal punto di vista del giudizio storico. Chiesa lo affronta con il piglio di chi si è sempre nutrito di cinema, e sa fare delle immagini un vero e proprio punto di riferimento per la narrazione. Toni asciutti (ma non prosciugati), che schivano la facile trappola della retorica e dell’enfasi, gli oscuri tornanti della "partecipazione di parte". Ma non eclissano il sentimento di urgenza, la presa di posizione, il gran senso dell’azione che emerge dalle sequenze di combattimento.
Ha in mente i film americani sul Vietnam, Chiesa, lo straordinario senso della sintesi di Terence Malick. Ma anche lo sguardo ad altezza d’uomo dell’episodio lagunare di Paisà, di Roberto Rossellini. L’obiettivo puntato a cercare quel limite che per un guerriero significa vita, o morte. Allo spettatore Il Partigiano Johnny chiede molto: più di quanto faccia una comune visione di questo periodo. Chiede di entrare nelle spire del periodare di Fenoglio, scabro e sinuoso allo stesso tempo. Chiede di partecipare ai processi di una scelta dolorosa, di un conflitto lancinante che genera lutto e solitudine. Chiede di rimanere esposti ai rigori del lungo inverno 1944, senza aiuti, sull’orlo dell’abisso. Nella lunghezza dei suoi tempi filmici c’è l’alienazione della guerra, la lontananza della ragione. Presentato in versione scorciata rispetto alla passerella veneziana, non soffre di questo snellimento mantenendo inalterata la sua compattezza. Guido Chiesa si conferma regista di talento e cultura. Decente, rispetto ad altre prove sicuramente più inespressive, la prestazione di Stefano Dionisi, il controverso studente universitario che sale i monti alla ricerca di se stesso, e di una migliore speranza. Dare a questo film la possibilità di esprimersi appieno significa rivolgersi alla storia, e cercare nuove speranze anche per il cinema italiano di oggi.