di Alberto Farassino
VENEZIA - Si dirà probabilmente che è un film fallito. Che, se è sempre difficile portare sullo schermo un'opera letteraria di grande spessore stilistico, di fronte a quel particolarissimo pastiche di riflessioni morali, frammenti narrativi, elementi diaristici, esercizi linguistici, esperimenti verbali che è Il partigiano Johnny di Beppe Fenoglio - che fra l'altro, come si sa, è un libro "virtuale", costruito dopo la morte dell'autore da redattori editoriali e filologi in varie e controverse versioni - l'impresa si annunciava fin dall'inizio rischiosissima, un'azione coraggiosa ma quasi senza possibilità di riuscita. Si dirà che il regista Guido Chiesa, che pure non è un impulsivo e si era preparato bene, con prudenza e con prolungati sopralluoghi sul territorio (un film indirettamente resistenziale come Il caso Martello, vari documentari e inchieste su partigiani e momenti della guerra di liberazione, un programma televisivo sullo stesso Fenoglio) è come rimasto invischiato nella materia narrativa del libro e non è riuscito a saltarne fuori e a dominarla con uno sguardo originale e tagliente. Lo si dirà, a stare almeno all'imbarazzato silenzio che ha accolto il film alla proiezione per la stampa, e non senza ragioni. Probabilmente troppo lungo (due ore e un quarto), certamente monocorde nel suo ripetersi di azioni, spari, assalti e ripiegamenti, assolutamente privo di quell'ironia e di quello sguardo obliquo che Fenoglio sapeva gettare sulle cose e le persone, scrupolosamente ma piattamente autentico nelle ambientazioni, nelle armi, nei costumi (che a volte sono addirittura quelli originali, indossati all'epoca da veri partigiani) laddove il libro sembrava invitare a una qualche reinvenzione più libera e fantasiosa, Il partigiano Johnny delude molte attese e, dopo il fallimento commerciale di I piccoli maestri di Luchetti, presentato a Venezia due anni fa, rischia di mettere una lapide sui generosi tentativi dei giovani registi italiani di riappropriarsi della mitologia resistenziale.
E tuttavia il film di Guido Chiesa è ricco di pensiero e lavoro cinematografico, rivela cioè riflessioni e scelte che possono non essere condivise o apprezzate ma che non possono essere liquidate con superficialità. A partire da quella centrale, che è stata appunto di considerare il romanzo di Fenoglio non nella sua ricchezza letteraria ma solo come un "materiale resistente" di tipo essenzialmente narrativo. Dunque, a parte qualche timida e isolata traccia, senza avventurarsi nell'originale impasto linguistico italo-inglese fenogliano, e senza pretendere di riprodurne la varietà di toni e le oscillazioni stilistiche. Anzi riducendo il tutto a pura azione, in una sorta di identificazione con le ragioni morali del protagonista: una volta fatta la scelta di andare a combattere, si combatte e si spara, senza pensarci su troppo, senza porsi problemi e scrupoli ad ogni momento. Se fai un film, fai un film, non della letteratura. Mostri, gente che corre, spara, attacca, si nasconde, si sbanda, muore. Lo stesso Johnny, che ha i lineamenti gentili di Stefano Dionisi, non emerge più di tanto dalle facce antiche e severe del resto della banda, dei genitori, dei contadini delle cascine (Andrea Prodan, Giuseppe Cederna, Toni Bertorelli, Umberto Orsini e molti altri). Certo che è sempre tutto uguale, fu così per mesi e stagioni. E il film si dipana, lungo le stagioni, da un autunno all'inverno di due anni dopo, fra le colline, i campi di mais e i filari di vite della Langa, le nebbie e la neve, il fango e le ombre lunghe della sera. Il tempo e lo spazio, le luci e il paesaggio, le foglie secche e la terra sono il suo stile. Se dopo un'ora sembra troppo lungo, dopo due non lo è più, è come un basso continuo su cui si stagliano, nella vera colonna sonora, i voli del violino del grande Alexander Balanescu. Ma proprio questa unica, riuscitissima scelta eccentrica dimostra quanto di più, forse, si poteva osare.