• Guido Chiesa
    Giovanni De Luna

2006 — PROGETTO Una città che non c'è più

C’era una volta il triangolo industriale: Torino, Genova, Milano e i loro satelliti. Per quarant’anni, sono stati il motore produttivo del capitalismo italiano. Poi, a partire dagli anni ’80, la trasformazione, con storie e accenti diversi, ma comunque destinata a cambiare nuovamente il volto e l’antropologia di queste grandi città.

Che cosa è rimasto, in queste tre luoghi simboli della storia italiana del ‘900, di quella importante stagione della società italiana? Quale eredità, materiale e non, ci hanno lasciato? Che ne è oggi delle grandi periferie milanesi, le Stalingrado del nord? Che cosa sono oggi i quartieri dormitori della capitale sabauda diventata terra olimpica? Che cosa è rimasto dell’antico rapporto tra genovesi, mare e porto?

Gli angoli di ricerca possono essere molti, ma noi preferiamo soffermarci sul rapporto, appunto
antropologico, tra città e individui, utilizzando, più che la storia politica e sociale, una chiave di lettura squisitamente visiva: il materiale di repertorio. Filmati professionali e non che ci raccontino sia i modelli di sviluppo, sia le grandi scelte architettoniche e urbanistiche dell’epoca dell’industrializzazione.

Sullo sfondo, grazie anche alle testimonianze e alle riprese raccolte oggi con semplici cittadini o personaggi-chiave, emergerà la vita reale, quotidiana di queste città nell’epoca in questione, ma anche in questi anni di ridefinizione di un’identità metropolitana.

In quest’ottica selezioniamo tre bacini privilegiati per la ricerca dei materiali:

1 – i filmati industriali delle aziende

2 – i filmati di propaganda, realizzati sia per volontà diretta o indiretta della Confindustria, sia per opera del Partito Comunista

3 – i filmini famigliari, che possono raccontarci l’aspetto più quotidiano e intimo della vita degli abitanti nel periodo preso in esame.

Il caso Torino

A titolo d’esempio, indichiamo un ipotetico percorso, con l’indicazione di alcuni materiali e personaggi, che potrebbero aiutarci a raccontare la trasformazione dell’identità della città piemontese

Il punto di osservazione prescelto è il quartiere di Mirafiori. Lo vediamo nei filmati Luce tra le due guerre: una cattedrale nel deserto, voluta dal brillante e scaltro ingegner Valletta, abile nel conciliare le velleità del fascismo e i piani aziendali degli Agnelli.  Alessandro Roncaglio, 78 enne, a Mirafiori c’è nato e cresciuto e se la ricorda quando era ancora quasi tutta campagna. Il suo quartiere, l’anziano ex operaio non l’hai abbandonato, tranne per quei quattro mesi in cui l’hanno deportato a Mauthausen perché l’avevano beccato a seminar volantini. Ma questa è un’altra storia

I filmati della Fiat depositati presso l’Archivio Storico dell’azienda torinese ci raccontano il boom degli anni ’50 e ’60, l’esponenziale crescita produttiva dello stabilimento, efficacemente sintetizzata dalla carrellata delle sue auto simbolo: la 500, la 600, l’850, la 124, la 127

Mirafiori, da banlieue buona al massimo per farci degli orti, diventa ben presto un quartiere  in piena regola. Palazzi, scuole, negozi nascono come funghi. La famiglia Vivalda, costruttori dagli anni ’50, qui ha lasciato il segno: cavalcavia, ponti, strade. L’imperativo era solo uno: costruire. Poco importava come e per conto chi. A nessuno era venuto in mente che un giorno quelle aree sarebbero state sovraffollate, che quei quartieri senza verde non avrebbero retto le esigenze di abitanti meno affamati e più istruiti, che quelle fabbriche avrebbero chiuso

In realtà, sul costruire, tutti erano d’accordo. Ce lo racconta bene il documentario Una  città da salvare, realizzato nel 1964 dalla costola cinematografica del PCI e oggi disponibile presso l’ Archivio audiovisivo del movimento operaio e democratico. Al di là delle accuse  agli avversari poltici e alle loro connivenze con il mondo industriale, il filmato denuncia le distorsioni, le insufficienze e i problemi di una città passata in dieci anni da 500.000 a un milione e duecentomila abitanti, quasi tutti giunti dal meridione. Ma mentre si stigmatizzano la sfrenata speculazione edilizia e gli affitti proibitivi, il traffico caotico e la carenza di aule e ospedali, non una parola si spende su un modello di sviluppo che appare ineluttabile, necessario, quasi naturale.

Quarant’anni dopo, Mirafiori è un quartiere tranquillo, con una modesta percentuale di immigrati, un basso tasso di criminalità e un altrettanto piccolo numero di lavoratori Fiat. Forza Italia, dopo la storica vittoria locale alle politiche del ’94, resta il primo partito, ma l’Unione ha avuto il sopravvento nelle ultime elezioni. Saverio Vertone, giornalista, scrittore e tra i consulenti del succitato documentario, e Alessandro Meluzzi, psichiatra, hanno in comune vari destini: l’essere intellettuali prestati alla politica; essere stati candidati sia per la destra che per la sinistra; l’essere stati eletti a Mirafiori. Insieme a loro, percorrendo le strade del quartiere, toccate pur esse dal lifting olimpico di quest’anno, cerchiamo di capire che cosa è diventata questa zona, specchio di una Torino che non è più operaia, ma non è ancora qualcos’altro.

Qualcosa che non sa bene come definire anche Angelo Perelli, proprietario di uno storico negozio di ottica di via Negarville, zona nei ’60-‘70 teatro di scioperi selvaggi ma anche di conflitti a fuoco tra bande rivali. Qui, da più di 40 anni, gli abitanti del quartiere vengono a sviluppare foto e filmini, a far riparare macchine fotografiche e telecamere. La realtà di Torino, ci racconta Perelli mostrandoci le immagini di quegli anni che ha raccolto con certosina pazienza, era un po’ come quella della sua fabbrica simbolo, che dettava gli orari e ne assorbiva la mentalità. Ci si alzava presto la mattina, si andava a dormire presto la sera. Si parlava ovunque il piemontese al punto che persino i terroni si facevano vanto di chiamarti
monsù, si era discreti, riservati, timorosi di esporsi. Gli abitanti della “Detroit d’Italia” erano orgogliosi del loro ruolo, fossero essi operai o impiegati, borghesi o proletari. Poi, con il benessere, questa mentalità si è smarrita, ma non del tutto dissolta. Solo che adesso, invece, nessuno detta più i tempi e il torinese rischia di diventare un perenne nostalgico: prima dei Savoia, poi della Fiat, oggi delle notti olimpiche finite pochi mesi fa.