UN DOLORE CHE CONOSCO

TUTTA LA BELLEZZA E IL DOLORE (titolo ancora più pregnante in inglese "All the Beauty and the Bloodshed", dove la parola "carneficina" fa la differenza, vedere il film per credere) è un’ opera che lavora su livelli diversi a seconda dell'età e del background dello spettatore. 

 

Prima di tutto c’è un documentario, vincitore del Leone d’Oro a Venezia 2023, ben scritto e montato, sempre incalzante eppure pacato nel suo incedere rispettoso verso il dramma  della propria protagonista e i temi che affronta.  

 

Su un livello c’è la lotta della nota fotografa americana Nan Goldin contro il colosso farmaceutico Purdue Pharma e, soprattutto, i suoi proprietari, la famigerata famiglia Sackler. 
I Sackler sono responsabili della morte, negli ultimi trent’anni, di centinaia di migliaia di pazienti americani a cui è stato indiscriminatamente prescritto l’Oxycontin, un oppiaceo antidolorifico che induce una rapida assuefazione con conseguenze disastrose.

Su un altro livello c’è la biografia della Goldin, anima inquieta che vaga nella New Yorj degli anni ’70-’80, oscillando tra il trauma per il suicidio della sorella e l’epopea del punk, una sessualità incerta e la scoperta della fotografia, il sorgere del movimento gay e il trionfalismo reaganiano, l’abuso di droghe e la svendita del proprio corpo.

 

Infine, c’è quello di una intera generazione “marginale” di quegli anni che viene travolta dalla tragedia dell’AIDS, il flagello delle morti per overdose e la fine di quell’esperimento cultural-antropologico iniziato negli anni ‘60.

 

Personalmente, c’è poi un livello che mi tocca da vicino.

Ho vissuto a New York negli anni in cui la Goldin, grazie al successo della serie "The Ballad of the Sexual Dependency", diventava una delle figure di riferimento di quel passaggio storico. La Goldin stava alla fotografia come Patti Smith stava alla musica o Jean-Michel Basquiat alla pittura. 

Ho conosciuto anche un po’ lei e le persone che fotografava, in quanto amica di Jim Jarmusch, con cui ho condiviso un importante pezzo della mia esperienza lavorativa americana. 

Ho attraversato quel coacervo di anfetamine, chitarre, sesso, morte, grazia e violenza che si respirava nella Manhattan di quegli anni.

 

La Goldin non faceva ritratti di soggetti “eccentrici”, ma istantanee dei suoi amici, della sua gente, di sé stessa. Mentre si divertivano, scopavano, piangevano, si bucavano o morivano. E sapevano di essere fotografati. Senza filtri.
La Goldin non fotografava la “violenza sulle donne”, ma il suo stesso volto, pestato a sangue dal fidanzato che amava.

La Goldin non ha iniziato la battaglia contro i Sackler per un volontarismo etico, ma perché lei era uno dei pazienti a cui era stato prescritto l’Oxycontin. E per poco non ne è morta. 

La Goldin non afferma che il travaglio della sua generazione nasceva da famiglie disfunzionali, ma racconta la drammatica disfunzionalità della sua famiglia. 
Tra la Goldin e la sua arte non c’era alcuna distanza.

A questo livello, il film di Laura Poitras, lungi dal generare nostalgia, mi ha restituito uno sguardo diverso, più compassionevole e empatico verso quella generazione, quella gioventù  affamata e divertente, esagerata e disperata. Come erano i miei vent’anni. E di questo le sono grato.