Se penso al manicheismo di tanti documentari della mia generazione – manicheismo politico, antropologico, identitario - va riconosciuto a serie come SANPA o VELENO, al di là dei meriti o difetti, della simpatia o meno per i vari Muccioli e Trincia, il coraggio di aver dato voce a tutte le parti coinvolte nelle vicende in oggetto, contrapponendole senza timore e assumendosi i rischi di una simile operazione.
Sia chiaro: pur riconoscendo le ragioni storiche e contingenti di quel manicheismo, sono il primo a voler/dover fare autocritica. Riconosco che il rifiuto di prendere in considerazione, con il dovuto rispetto, la voce di chi era portatore di una visione differente, anche antitetica, mi ha spesso impedito di avere un quadro più profondo e articolato delle storie che andavo affrontando. Non è solo una questione di mettere di mettere in discussione idee, valori o appartenenze, ma di avere un approccio e sguardo realmente liberi.
Certo è straniante ascoltare nell’ambito dello stesso racconto le ragioni di Muccioli e dei suoi collaboratori al pari delle accuse dei suoi detrattori, così come quelle dei ragazzi che ricordano gli abusi famigliari di VELENO giustapposte alle testimonianze di coloro che sostengono di essere stati plagiati dagli psicologi. Di primo acchito può far pensare a una scelta dettata da vigliacca par condicio o finta equidistanza, invero il discorso è un altro.
Il fatto è che la realtà è sempre una costruzione complessa e la verità frutto di schematismo o pregiudizio non è verità, ma una forma di insicurezza travestita da arroganza.
Non penso che gli autori di questi documentari siano immuni da pregiudizi. Nessuno lo è. Noi tutti maturiamo idee e opinioni subendo le influenze e i condizionamenti provenienti dai contesti famigliari, sociali e culturali in cui siamo cresciuti. Quello che lavori come questi riescono a fare è di offrire il loro punto di vista (che c’è sempre, in qualunque comunicazione) conducendo chi li guarda e ascolta attraverso un processo partecipato di scoperta, e non tramite posizioni aprioristiche. Un processo che può di lasciare lo spettatore incerto e confuso, ma sicuramente non ricettore passivo, mero destinatario di soluzioni prefabbricate. Da che parte starà lo spettatore – ammesso e non concesso che da una parte sia indispensabile stare – sarà così una decisione maturata nell’atto stesso della audiovisione e non frutto di un giudizio formulato a prescindere.
Trovo che questa sia una bella conquista.