Alcuni giorni fa l’amico Mauro Gervasini, ricordando la presentazione del mio terz’ultimo film, IO SONO CON TE a Varese da lui organizzata, commentava il mio post E’ PRIMAVERA (lo trovate qui sotto) in un pezzo che trovate sul sito di FilmTV: http://filmtv.press/news/183036.
Al netto delle belle parole spese da Mauro a proposito di quel film, vorrei soffermarmi su alcune sue considerazioni che mi permettono di allargare il discorso dal caso personale alla situazione più generale del cinema italiano.
1.
“Grazie a una partecipazione non solo professionale dello stesso Guido, quella non fu una proiezione come le altre”
Senza offesa per Mauro e gli spettatori di quella bella serata varesina, voglio segnalare che dopo la presentazione al festival di Roma, ho seguito IO SONO CON TE in oltre 200 proiezioni in giro per l’Italia. Dopo tre anni, densi di serate e incontri importanti, non solo non avevo guadagnato abbastanza per viverci, ma avevo anche sottratto tempo considerevole alla famiglia, a me stesso, nonché alla progettazione di nuovi lavori. Nessuno mi aveva obbligato a farlo, sia chiaro, ma non è certo questa una soluzione “idonea” dal punto di vista professionale, almeno per me.
2.
“Credo che nessuno sia uscito da quell'incontro uguale a come ci era entrato”.
Penso che la pratica dell’evento “proiezione con dibattito con il regista” - per quanto gratificante per il regista e forse arricchente per lo spettatore – sia una modalità “dopata”.
Primo perché ci dovremmo chiedere quanti tra i presenti quella sera a Varese sarebbero andati al cinema a vedere IO SONO CON TE se non ci fosse stato “l’evento”. Temo pochi.
Secondo perché qualsiasi film dovrebbe parlare da sé. Ho imparato molto vedendo ANDREI RUBLEV o A QUALCUNO PIACE CALDO senza aver mai presenziato a un dibattito con Tarkowski o Wilder.
Ciò detto, non ho nulla contro la proiezione con dibattito, ma non può essere che l’eccezione, non la regola.
3.
“Aggiungo che se tra altri sette, o quattordici, o ventuno anni dovessimo ripetere la medesima esperienza guardando Io sono con te avremmo lo stesso risultato, mentre non credo che ci ricorderemo di Belli di papà”.
Qui entriamo in un campo minato con il rischio di inoltrarci in un dibattito concettuale (film serio/impegnato/d’autore vs commedia/film commerciale) da cui dubito che ne usciremmo con un minimo comune denominatore. Mi limito quindi a riportare un’esperienza personale.
BELLI DI PAPA’ avrà toccato forse toccato corde meno nobili e “complesse” di IO SONO CON TE, ma il fatto che tanta gente che va poco o mai al cinema, vedendolo in sala o sulle tv via cavo, mi ha detto o scritto che il film del 2015 lo ha (anche) fatto commuovere e riflettere, per me è motivo di grande soddisfazione e compiacimento.
Parafrasando una battuta di CLASSE Z, non credo che esistano spettatori di serie A e di serie B. Per quanto mi riguarda, spero che tra sette, quattordici, ventun’anni BELLI DI PAPA’ sia ricordato con affetto da donne e uomini che vanno poco al cinema, al pari di IO SONO CON TE che è stato visto e analizzato da un ristretto cenacolo di persone “colte”.
4.
“Questo discorso ha a che fare con la volontà politica di investire in qualcosa che abbia come unico parametro un valore non negoziabile, non quantificabile economicamente. Potrà essere storico, linguistico, culturale in senso ampio, fate voi”.
Qui, ahimè, casca l’asino.
Per quasi trent’anni, almeno fino alla fine dello scorso decennio, il cinema italiano (d’autore ma non solo) è stato sostenuto da forti contributi statali proprio sulla base del principio esposto da Gervasini, la famosa “eccezione culturale”: aiutare la produzione di film d’interesse culturale, mettendo parzialmente al riparo le produzioni dalle limitazioni e censure del mercato.
Io stesso ne ho beneficiato (tre film su sette della mia filmografia sono stati finanziati così) e quindi non sputo nel piatto dove ho mangiato: se non ci fossero stati finanziamenti pubblici, probabilmente non avrei mai esordito, al pari di tanti miei più illustri e premiati colleghi.
Parimenti, tutti conoscono lo spreco di denaro pubblico che ha accompagnato questo tipo di stanziamenti. Nel corso degli anni, oltre ad opere meritorie e altre poco riuscite ma sicuramente degne di rispetto, sono stati sostenuti film il cui principale valore di merito risiedeva nell’amicizia politica tra gli erogatori e i beneficiari, nonché dal clientelismo o dal mero favoritismo familiare.
Già sento qualcuno esclamare: “Bisognava cambiare i comitati di fianziamento, mettere gente con le mani pulite!”. Permettetemi di non essere d’accordo. Conosco tante persone perbene, membri di quei comitati, che in quei trent’anni hanno cercato di fare altrimenti, ma si sono regolarmente scontrate con meccanismi che solo una profonda mutazione antropologica (che si calcola in secoli, non anni) potrà trasformare.
Con questo non voglio assolutamente dire che bisognerebbe eliminare o ridurre ulteriormente i finanziamenti pubblici, ma che non c’è da stupirsi se nell’ultimo decennio c’è stata una riduzione nelle erogazioni. Una riduzione che, però, non ha sortito gli esiti previsti.
In base alla logica del “meno soldi pubblici più capitali privati”, questa erogazione avrebbe dovuto portare alla produzione di un numero minore di film “seri/impegnati/d’autore”, i quali però avrebbero goduto di maggiore “protezione” in fase di distribuzione. Nulla di ciò è successo: il numero dei film è aumentato, ma con budget sempre più bassi. Inoltre, le cifre parlano chiaro, il cinema d’autore italiano ha visto i suoi incassi calare ancora, a fronte di una crescente diminuzione del suo complessivo impatto culturale.
Questo evidentemente perché non basta intervenire sui meccanismi di finanziamento, senza porre mano anche a tutta la filiera che va dalla sala ai passaggi televisivi (IO SONO CON TE, prodotto con Rai Cinema, non è passato su nessuna delle principali reti RAI), per proseguire con il web e la pirateria.
In tutto ciò, quel che resta dell’industria del cinema italiano non è mai veramente entrata in crisi SOLO grazie alle commedie e ai film dei comici (http://cineguru.screenweek.it/2017/04/perche-pensiamo-cinema-italiano-sia-sempre-crisi-17263), perché sono gli unici film che, seppure con alterne vicende, riescono a bilanciare la forbice tra costi e ricavi. Una forbice che, purtroppo, continua ad aumentare senza che nessuno, a mio parere, voglia veramente affrontare il problema, al netto dei mugugni, della demagogia dei mercoledì a 2 euro o dell’irrisolvibile questione della qualità, che è certo fondamentale ma non essenziale (forse perché soggettiva?), come dimostrano i tanti film spesso esaltati dalla critica e poi ignorati nelle sale (se poi Hollywood si reggesse sulla qualità, credo che da un pezzo avrebbe chiuso battenti…).
Perdonate la provocazione: di fronte al fallimento delle politiche statali per la difesa del cinema d’autore/serio/impegnato, se non vogliamo più fare/vedere commedie, ma allo stesso tempo vogliamo continuare a fare cinema, non resta che invocare il ritorno del mecenatismo di Papi e Imperatori o Grandi Ricchi.
Io ho una mia predilezione, ma non ve la dico.
6.
Sembrerà strano dopo quello che ho scritto, ma ho la sensazione che gran parte delle difficoltà del cinema nostrano, d’autore e non, dipenda per lo più da un “clima”.
La maggior parte degli addetti ai lavori, ME INCLUSO, in questi ultimi anni ha reso un pessimo servizio al cinema italiano, dando l’impressione che, come per il resto del paese, tutto vada male, tutto sia in crisi, tutto faccia schifo. I film, dice questa vulgata, sono brutti, i registi non sanno fare cinema, le sceneggiature sono penose, i produttori non capiscono un’acca, i finanziatori pure… E poi la solita giaculatoria esterofila e provinciale: “magari fossimo in Francia”, “sì che all’estero ci sanno fare”, “meglio la Corea”, eccetera eccetera. Al massimo si osanna qualche nome, giusto in tempo per impallinarlo non appena ha successo o deriderlo perché “sì, fa bei film, ma hai visto quanto poco ha incassato?”.
È un clima di sfiducia e malcelato disprezzo che si respira in ogni recensione, articolo, dibattito, ecc., specie sul web. Come se ogni comunicazione attorno al nostro cinema (tranne qualche rara eccezione) nascondesse una “matrice” reale fatta di scetticismo, cinismo, rancore, sarcasmo, invidie, lamentele e “gufate”. Una dinamica che qualche psicologo dovrà prima o poi analizzare, per scoprire magari che si tratta di una sorta di depressione collettiva. Ma che, ahimè, alimenta un pregiudizio ormai incancrenito.
Forse è vero gli spettatori sono stati delusi dai film italiani, ma così, basta rileggere le cronache del passato, è sempre stato. Altrettanto, dovremmo fare meno film (non lapidatemi: ne ho fatti 7 in 27 anni…), ma non andare a vederli apriori tutti è indice di un pregiudizio.
A mio parere, chi riesce oggi a fare film in Italia merita di essere in ogni modo aiutato a trovare un pubblico, a cominciare dalla creazione un ambiente positivo attorno ad essi, non per contrastare l’incontrovertibile processo della diffusione di streaming/pay tv, bensì per allargare il bacino d’utenza e rendere nuovamente “attraente” la visione di film nelle sale, e in particolare di cinema italiano. Produttori, registi, sceneggiatori, attori, ecc. possono fare film più o meno riusciti, possono provare e sbagliare, possono anche fallire, ma sono parte di un settore (ancora) vitale, che dà lavoro a tanta gente, soprattutto giovani: mandarlo al macero non credo che farebbe bene, a tanti, inclusi giornalisti, gestori di sale, operatori culturali, responsabili di festival, ecc.
Ovviamente, non sto dicendo che non si debba giudicare, o peggio ancora tacere per amor patrio. Per carità. Ma tra l’analisi critica, anche spietata, e la proliferazione di una persistente epidemia mimetica di sfiducia e pregiudizio, credo che ne passi molto.
Tutti hanno il dovere di darsi da fare, di inventare nuove strategie e percorsi, non solo i cineasti.
7.
Unilateralmente e senza alcun interesse personale, vi invito pertanto a vedere i film, già usciti o di prossima uscita, di Toni D’Angelo, Alex Infascelli, Claudio Amendola, Max Croci, Alessandro D’Alatri, Stefano Incerti, Francesco Bruni, Daniele Vicari, Saverio Di Biagio, Alessandro Aronadio, Gianni Amelio e altri che non conosco e con cui mi scuso se non li menziono.
Saranno belli, saranno brutti, non lo so. Posso dire: non mi importa. Perché so che questi registi, produttori, attori, sceneggiatori, dop, fonici, montatori, troupe ecc. operano in condizioni difficili, per non dire peggio, e sono abbastanza sicuro che nel mondo non si realizzino film tanto migliori di questi.
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