IL (QUASI) FILM DELL'ANNO

Vado poco al cinema, meno di quanto vorrei. Un po' per stanchezza, un po' per difficoltà organizzative (un po' perchè dopo troppo lavorare e parlare di cinema mi sento come il pescivendolo invitato a cena a casa di amici che tra sè e sè pensa: "che sia tutto, fuorchè pesce").

Ho letto le classifiche di fine anno di varie testate, su cui scrivono molti amici. Ammetto di non aver visto la stragrande maggioranza dei film da loro segnalati. Sicuramente ne ho persi alcuni perchè stavo lavorando, ma è anche vero che parecchi di questi titoli non sono mai usciti in Italia o lo saranno solo nei prossimi mesi. Recuperemo.
Altri sono entrati e usciti dalle sale con fulminea rapidità. Molto probabilmente hanno sofferto di una distribuzione limitata e faticosa, per carenza di sale e investimenti promozionali (nonchè di un mercato che rende quasi impossibili le teniture). Forse hanno scontato anche una certa diffidenza del pubblico verso i cosidetti film d'essai, dato che in alcune (parecchie?) occasioni titoli in varia misura celebrati dalla critica non hanno poi raccolto i medesimi entusiasmi presso gli spetattori paganti.
Comunque, cercherò di rimediare anche con questi, soprattutto con i titoli dei colleghi italiani, dal momento che sto cercando, quando possibile, di privilegiare il prodotto nazionale, se non altro per una questione di simpatia, solidarietà e gioco di squadra.

Fatte salve tutte queste premesse, quando ormai pensavo di non trovare un titolo "più convincente degli altri", ecco arrivare PONTE DELLE SPIE di Steven Spielberg, visto in versione originale.
Una storia con evidenti i riferimenti alla lotta al terrorismo per un film sostanzialmente classico, ossia recitato in modo splendido e funzionale, ottimamente scritto (dai fratelli Coen), con una fotografia e un montaggio coerenti con il senso generale dell'opera. Un film superficialmente "lento", ma che scorre via con incedere sicuro e una rara consapevolezza dell'obiettivo.
Non imperdibile o memorabile, ma un robusto esempio di cinema in cui la parola "stile" non significa formalismo, mera cinefilia o guitteria, ma il risultato di una sana compenetrazione e dialettica tra linguaggio e significati, dove, come insegnava Ėjzenštejn ai suoi alunni che, prima di chiedersi da dove o come riprendere, un cineasta deve partire dal che cosa, ossia “studiare la cosa dal punto di vista del significato".
Non sono un fan acritico di Spielberg, eppure, sebbene non ne condivida in genere l'ideologia, quando riesce a porre questioni morali in modo così preciso (come in MUNICH o SALVATE IL SOLDATO RYAN), non posso che uscire dal cinema ammirato e contento.