Ho visto Jeff Buckley in concerto nel novembre 1994 a Los Angeles. GRACE, il suo primo e imperdibile album (l'unico suo album degno di questo nome) era uscito pochi mesi prima. La sala era gremita, si respirava un'atmosfera di controllata esaltazione. Tutti sapevano che era nato un talento. E il concerto non deluse: pathos, humour, tessiture chitarristiche mozzafiato. E quella voce, ah quella voce.
Anche se non avessi sentito in precedenza GRACE, sarei andato a quello show anche solo per rispetto alla memoria di Tim Buckley, padre di Jeff, uno dei musicisti preferiti della mia giovinezza, tanto che dieci anni dopo inclusi ben due volte la sua SONG TO THE SIREN in LAVORARE CON LENTEZZA.
Jeff morì a Memphis nel maggio 1997 per un incidente durante un bagno nel Mississippi. Si narra che, mentre si immergeva in acqua, prima di essere risucchiato da un gorgo, stesse canticchiando il ritornello di WHOLE LOTTA LOVE dei Led Zeppelin.
L'autopsia e le indagini esclusero altre cause esterne al decesso. Stava lavorando sul suo secondo, e mai concluso, album.
Tim era morto nel giugno 1975 a Santa Monica, in California, per overdose di eroina e alcool.
Tim abbandonò la madre, la violoncellista Mary Guibert, prima ancora che Jeff nascesse nel novembre 1966. Padre e figlio si videro pochissime volte e a Jeff chiaramente la cosa non era indifferente, tanto che, durante l'infanzia, non voleva che lo si chiamasse Buckley, bensì Scott "Scotty" Moorhead, dal cognome del patrigno che lo aveva cresciuto.
Solo dopo la scomparsa di Tim, Jeff decise di utilizzare il cognome del padre.
Il rapporto tra Jeff e la memoria del padre fu sempre contradittorio e altamente conflittuale: lo rispettava come musicista, pur con dei distinguo, tanto che detestava che lo si paragonasse a lui; non lo giudicava per averlo abbandonato, ma, come si capisce dalle interviste (cfr. http://www.jeffbuckley.com/rfuller/buckley/words/features/rs-sonalsorises.html), covava nei suoi confronti una profonda e malcelata rabbia, solo velata da un inconfondibile sense of humour, come quando, ragionando sul fatto che nei negozi i loro dischi erano posti uno accanto all'altro, scherzava "separati tutta la vita e ora sono qui, nello scaffale accanto al suo. La sua roba dovrebbe starsene per conto suo, così come la mia. Altrimenti come posso onorarlo?".
Ecco, essere un grande artista non ti da la patente di padre responsabile, padre degno di questo nome. Perché a un figlio non si lascia mai solo un nome e un pacco di belle cose, ma anche il peso delle tue assenze e invadenze e carenze. E a lui servirà ben poco ritrovarsi poi fianco a fianco negli scaffali della storia quando il conto non è stato saldato nella vita reale.