Lo scandalo e l'imbarazzo

Per togliervi dall’imbarazzo, andiamo dritto al solo, cari amici che mi sorridete a denti stretti quando vi dico che ho fatto un film su Maria da Nazaret, madre di Gesù. Lo so che vi state chiedendo se sono impazzito. Lo sento nelle vostre risatine impacciate, nei vostri prolungati silenzi, nelle vostre frasi smozzicate tipo “hai visto la Madonna?” o “sei sulla scia di Pasolini?”.

Trovo legittime e per nulla disdicevoli le vostre reazioni. Fanno parte del tragitto e le avevo, per così dire, messe in conto. Vorrei rassicurarvi: non sono impazzito. Ma so che questo non è un argomento dimostrabile, e quindi temo di scarsa efficacia.

Posso allora dirvi che le ragioni per cui ho fatto questo film sono squisitamente razionali, nel senso che al termine razionalità dà buona parte della scienza contemporanea; ad esempio il neuroscienziato Antonio Damasio quando sostiene che l’idea di una ragionè non influenzata da emozioni e sentimenti non ha ̀€riscontro nella realtà del nostro cervello. La razionalità è qualcosa di non scindibile, né in via pratica, né teorica, dalle nostra facoltà emotive e, più in generale, dalla nostra fisiologia, dal corpo in cui tutto accade. Una è l’interfaccia delle altre, impossibile separarle. Anzi, è pernicioso farlo.

Razionalmente, dunque - nonostante tutte le resistenze che ho incontrato dentro di me, il mio scetticismo e agnosticismo; per un lungo frangente anche la mia ostilità preconcetta nei confronti della Chiesa - ho compreso che nei Vangeli, a cominciare dai passi che raccontano di Maria e dell’infanzia di Gesù, vi è una rivelazione che non contrasta, anzi esalta, quello che il mio intelletto può cogliere. E, parimenti, che non contrasta con le mie sensazioni profonde, il mio sentire emotivo: il bisogno di libertà e amore.

Per farlo, ho dovuto farmi aiutare da compagni di strada che, come me, non condividevano alcuna fede, o che vi erano arrivati non certo per vie irrazionali.

Penso alla psicoterapeuta Alice Miller, a cui sono giunto indagando la mie difficoltà di padre e finendo per scoprire le ferite di un’infanzia che mi ero (ri)costruito invece come normale, per non dire felice. Scriveva questa ebrea polacca, che aveva avuto il coraggio di mettersi alle spalle il feticcio delle pulsioni innate di Freud, e non poteva essere sospettata di alcuna frequentazione clericale: “Gesù è stato allevato da genitori che lo consideravano come il figlio di Dio. Possiamo dunque supporre che non l’abbiano mai picchiato, che gli abbiano portato il più grande rispetto e dato il più grande amore. Conosciamo i risultati di questa educazione, fondata sull’amore, la tolleranza e il rispetto: qualcuno che ha trasmesso a sua volta ciò che aveva ricevuto, la compassione, la tolleranza, l’amore, il rispetto. Com’è possibile che in 2.000 anni nessun rappresentante della Chiesa si sia orientato in questo senso? Che la Chiesa non si sia mai levata contro la punizione corporale dei giovani? Che la carità, la tolleranza e il perdono siano predicati agli adulti e praticati nei loro confronti, ma espressamente vietati nei confronti dei bambini?  (1)”

Oppure Michel Odent, chirurgo ostetrico francese, il quale, alla ricerca di una perduta naturalità del parto, indica nel racconto della nascita di Gesù la metafora perfetta di un venire al mondo senza interferenze esterne (mediche o maschili, ad esempio), ma nella intimità simbiotica che si può creare tra una madre e la sua creatura.

O come l’americana Jean Liedloff, autrice di un unico libro, Il concetto del continuum (Meridiana), che negli anni ’70, senza alcuna preparazione antropologica o pregiudizio accademico, ma dal semplice contatto e osservazione di isolate popolazioni indios, che non conoscevano quasi la civiltà, si rende conto dell’importanza del portare in braccio i bambini, di allattarli al seno ogni volta che lo chiedono, di dare loro fiducia e non maltrattarli. E come da questa fiducia spontanea vengano fuori individui sicuri di sé, equilibrati e capaci di vivere a loro agio in condizioni ai nostri occhi disagevoli come una giungla equatoriale.

Una intuizione che viene puntualmente confermata dalle scoperte scientifiche più recenti, come ben compendia ad esempio la psicoterapeuta britannica Sue Gerhardt nel suo prezioso Perché si devono amare i bambini (Cortina editore): lo sviluppo del cervello umano, la sua funzionalità e il suo equilibrio dipendono in modo decisivo dalle condizioni della nostra infanzia, dai rapporti primari, dal grado di amore con cui siamo stati accolti a questo mondo. E, viceversa, ogni violenza, trauma, psicologico o fisico che sia, ha conseguenze incancellabili sul nostro assetto neuronale e sulla nostra vita psichica.

Per arrivare, infine, a con quel gigante del pensiero che è Renè Girard, il quale, rintracciando nell’effetto pacificatore del sacrificio l’origine della religione quale tentativo, sempre inefficace, di placare il propagarsi della violenza tra gli uomini, individua nel cristianesimo il superamento di ogni possibile violenza sacrificale, in quanto religione che si fonda sul sacrificio non di capri espiatori, ma di Dio stesso, vittima innocente che non chiede a nessuno di sacrificarsi al posto suo, se non come libero atto di amore verso il prossimo. Ci vuole poco a capire che quanto Girard intuisce comparando le religioni, è un processo che va ben al di là delle religioni antiche e che il cristianesimo non è riuscito, se non parzialmente, a eradicare. Anzi ogni civiltà, soprattutto quella moderna, che si fonda sulla emancipazione dal religioso e l’istituzione di nuove religioni laiche (l’ideologia, la scienza, la politica, il profitto, il lavoro, il successo individuale, ecc.), necessita comunque di vittime sacrificali, di capri espiatori mascherati. Che la storia del cristianesimo sia stata poi, per alcuni tratti, accompagnata da violenze, non toglie nulla all’intuizione di Girard: non una virgola del Vangelo autorizzava i soprusi che venivano perpetrati in suo nome (2).

Questa rassegna potrebbe continuare, ma non avendo intenzione convincervi di niente - bensì solo testimoniarvi una parte, quella più squisitamente culturale e intellettuale, di un percorso -  fermiamoci qui.

Cari amici, forse qualcuno di voi penserà che ho perso la ragione, ma io ho la sensazione di averla ritrovata. O, per lo meno, di averla attraccata in un porto più sicuro, libero e pieno di speranza. In cui essere accolto e compreso, anche nelle mie debolezze e errori.

E’ in questa prospettiva che non mi sento in alcun modo autorizzato a giudicare, o peggio ancora a stigmatizzare, chi fa esperienze differenti dalla mia, ad esempio di tipo mistico o spirituale. O, a maggior ragione, chi si avvicina alla fede in modo schietto e naturale, fin dalla più tenera età; quegli stessi che molti di voi (io per primo, un tempo) considerano creduloni o plagiati. Altrettanto, pur essendomi avvicinato alla religione senza l’aiuto attivo della Chiesa, riconosco senza difficoltà il suo ruolo di comunità di fedeli e di custode del Vangelo: riconoscimento che non mi impedisce di esprimere critiche alle istituzioni ecclesiastiche quando lo ritengo necessario (ahimè spesso di quanto vorrei).

Semmai mi interrogo da che cosa nasca questo imbarazzo, sapendo che, fino a poco tempo addietro, io stesso ho giudicato e reagito nello stesso modo quando mi si parlava di certi argomenti: io penso che nasca da quello che qualcuno ha definito lo scandalo del cristianesimo.

Uno scandalo che è agli antipodi della facile blasfemia o banale trasgressione (come sarebbe stato tremendamente più facile e commerciale occuparsi dell’apparato riproduttivo di Maria! O immaginarsi un Gesù maghetto come fa Dario Fo nel suo tanto lodato "Mistero buffo"), ma si gioca tutto nel discorso attorno all’uomo, perché, come ricorda Girard sulla scia di Simon Weil, “prima di essere una teoria su Dio, una teologia, i Vangeli sono una teoria sull'uomo, un'antropologia”.

Uno scandalo che si fonda su una parola abusata e svilita del lessico contemporaneo: amore. Non un concetto astratto, nevrosi erotica o mieloso sentimento, ma quello che può o non può mettersi in gioco quando una nuova vita è accolta, fin dai primi istanti, con affetto, cura e fiducia nella sua innata innocenza.

Solo un corpo che ha conosciuto amore nei momenti decisivi della sua crescita è libero. E solo chi è libero può dare amore incondizionato.

Questa è la via veramente trasgressiva che ci è data per uscire dalla violenza dell’uomo sull’uomo, dalla coazione a ripetere il male patito, dal circolo vizioso delle vittime che diventano carnefici. Come quella dei figli che, una volta diventati adulti (e genitori, insegnanti, uomini e donne delle istituzioni, ecc.), con la prepotenza dell’età o con l’incoscienza di chi ha rimosso, infliggono agli altri (e ai loro bambini )quello che loro stessi hanno subito da piccoli.

Questo è ciò che Maria ha risparmiato a Gesù e qui c’è la inaccettabile semplicità del Dio che si fa uomo. E di questo vuole ragionare, e speriamo emozionare, il nostro film.

1. Alice Miller fa qui di tutte le erbe un fascio: la storia della Chiesa è densa di esempi che la contraddicono. Ma l’ubbidienza a padre e madre come ordinato dal IV comandamento, nonostante gli insegnamenti e le azioni di Gesù, rimane ancor oggi  uno dei capisaldi pedagogici della catechesi; il catechismo della Chiesa cattolica, ricordando come l’Antico testamento ammonisca che “Chi ama il proprio figlio usa spesso la frusta... Chi corregge il proprio figlio ne trarrà vantaggio”,  non fa mai menzione di che cosa dovrebbe fare un figlio se i suoi genitori non gli riservano quell’amore che Gesù ha indicato come comandamento supremo. Insomma, su questa questione, il catechismo è ancora pre-cristiano).

2. A meno di forzature come l’estrapolazione di frasi quali “Non crediate che io sia venuto a portare la pace sulla terra. Non sono venuto a portare la pace, ma la spada” (Mt 10,34), letta quale invito alla violenza senza tener conto della frase successiva: “Sono venuto a separare l'uomo da suo padre, la figlia da sua madre, la nuora da sua suocera”. Per non parlare, poi, di quel che dice Gesù quando Pietro estrae quella spada: “"Rimetti la tua spada al suo posto: coloro che mettono mano alla spada periranno di spada” (Mt 26,52).