Ogni volta che si reca in un posto interessante, particolare, emozionante o curioso, o che gli adulti reputano tale, mio figlio mi prende l'IPhone e scattta a ripetizione decine di fotografie: Colosseo, Juventus Stadium, Louvre, Monte Bianco, Museo Egizio, Salento, ecc.
Ogni volta, puntualmente, alcuni giorni dopo scarico le fotografie sul computer e le passo in rassegna per capire quel che ne è venuto fuori.
E' un modo per ricordarmi quel che abbiamo visto e vissuto insieme, ma anche per cercare di comprendere quel che lui vede e come lui vede.
In genere, fotografa in modo che si potrebbe definire abbastanza "tradizionale", frontale e centrale, simmetrico e proporzionato; è la maniera che nel linguaggio cine-fotografico viene denominata "ad altezza d'occhio"(umano, ma in questo caso sarebbe meglio dire bambino). Ho sempre pensato che questo suo modo di fotografare dipendesse dai modelli cognitivi introiettati, dall'imprinting ricevuto per via dell'esposizione a immagini e film, che lui, come la maggior parte dei bambini occidentali d'oggi, ha incominciato a vedere fin dalla più tenera età.
Ma più ci rifletto sopra, senza escludere questa influenza culturale, più il suo modo di inquadrare mi sembra quello più naturale, quello che meglio esprime ciò che lui realmente "sente" verso un determinato luogo, persona, oggetto, edificio, paesaggio.
Non è una questione di talento o semplicemente di imitazione - per quanto questa giochi un ruolo importantissimo e mai sottovaturabile - : mio figlio ritrae come vede, come il suo cervello elabora ciò che i suoi occhi percepiscono e viceversa.
Per questo mi sono soffermatosu questa fotografia: non tanto perchè è sfocata, ma per il suo apparente sbilanciamento: in realtà, a lui non interessava la Mole Antonelliana, nè la sottostante Piazza Vittorio, bensì
il cielo solcato da nuvole minacciose. Avrebbe potuto fotografare solo il cielo allora, ma la presenza dei palazzi, se uno ci pensa, permette a chi guarda la foto di apprezzare ancor di più la vastità incombente delle nuvole e l'apertura grandiosa dello spazio. Lui ha fotografato quel che ha visto in quel momento, punto.
Quel che non poteva sapere mio figlio, è che lì, in basso a destra, in una clinica che adesso non c'è più, tanti anni fa nascevo io. E altrettanto, lui non poteva sapere che la prima cosa del mondo che avevo visto non era stato il volto di mia madre e neanche la mano di un'ostetrica, ma un forcipe d'acciaio che mi afferrava il cranio e me lo estraeva a forza da quell'antro accogliente.
Chissà se quella prima immagine, che sicuramente si è impressa in qualche parte remota del mio cervello, nell'amigdala o ancor più in là, è l'origine sepolta della mia perdita di fiducia nella capacità dei miei occhi di vedere, della mia paura di guardare che mi ha spinto negli anni a fare cinema, ma anche privilegiare il cervello a scapito della vista, a cercare sempre un modo cereberale e estremo e quindi innaturale di inquadrare.
Mio figlio non lo sa, ma mi ha fatto vedere qualcosa.
"La lucerna del corpo è l'occhio; se dunque il tuo occhio è chiaro, tutto il tuo corpo sarà nella luce; ma se il tuo occhio è malato, tutto il tuo corpo sarà tenebroso" (Matteo 6, 21-22)