BEPPE FENOGLIO: UNO SCRITTORE CHE NON ABBIAMO CAPITO

Domani, 50 anni fa, Beppe Fenoglio moriva in un ospedale torinese. Cancro ai bronchi. Tutti a dire colpa delle sigarette, ne fumava tre, quattro pacchetti al giorno. Dato che ho avuto il piacere e l'onore di studiarne l'opera e la biografia per quasi vent'anni, ho formulato altre ipotesi in merito a quel tumore. Ipotesi scaturite da tante altre storie che ho letto e ascoltato sulla sua vita, accadute ben prima che incominciasse a fumar sigarette, che sono un effetto piuttosto che una causa. Vicende sepolte in una parabola umana di cui possiamo solo percepire l'eco faticoso nelle pagine di LA PAGA DEL SABATO o LA MALORA: il rapporto con la madre in primis, e gli altri famigliari dopo, la sensazione di inadeguatezza e solitudine che deve averlo accompagnato per tutta la vita.

Credo che, come essere umano, Beppe Fenoglio abbia subito molti torti e che la sua scrittura così potente sia anche figlia di quella sofferenza, e gli abbia in parte offerto un'occasione di riscatto e felicità. Ma solo in parte, una piccola parte, perché morire a 41 anni con una figlia appena nata non è un bel morire.

Su questa vita non sta a noi esprimerci e emettere sentenze, c'è chi lo fa meglio di chiunque altro.

Sulla sua sorte pubblica, sul suo destino di narratore qualcosa possiamo invece dire. E anche qui non sono poche le vicissitudini di cui è stato protagonista.

Penso però che il peggior torto che è stato fatto allo scrittore Fenoglio non sono state tanto le critiche ideologiche che ha subito in vita da intellettuali altrimenti acuti come Pierpaolo Pasolini.

O le censure altrettanto ideologiche riservategli dal suo mentore Vittorini e dalla casa editrice Einaudi, che gli avevano cambiato il titolo della sua prima raccolta di storie brevi, mutandolo dal coraggioso e lacerante I RACCONTI DELLA GUERRA CIVILE, al più soft (e accettabile dalla retorica resistenziale comunista) I VENTITRE' GIORNI DELLA CITTA' D'ALBA.

O i tagli apportati a PRIMAVERA DI BELLEZZA dall'editore Garzanti, ossia l'amputazione della seconda parte di quel romanzo del 1959, poi pubblicata post-mortem con il titolo IL PARTIGIANO JOHNNY - una vicenda editoriale che gli ha impedito di portare a termine nel modo in cui avrebbe voluto la sua epopea bellico-esistenziale.

O l'arbitario collage della prima edizione dello stesso romanzo uscito nel 1968, frutto di una incongruente somma di due stesure distanti nel tempo e nello spirito.

O il disinteresse delle lobby intellettuali e dei salotti bene della cultura per uno scrittore isolato e riservato che per tutta la vita ha fatto l'impiegato di una ditta di spumanti, bersaglio di pettegolezzi e derisioni di tanti suoi concittadini, un po' invidiosi, un po' ignari.

Il torto più grande che è stato fatto allo scrittore Fenoglio è di averlo considerato come uno scrittore della Resistenza. Fenoglio era uno scrittore, punto.

Un grande scrittore, poco e tanto italiano.

Chiedo scusa se ho contribuito con i miei film a diffondere e radicare questa menzogna.

Come diceva il suo amico e fotografo Aldo Agnelli: "Se non ci fosse stata la Resistenza, Beppe l'avrebbe inventata". Forse se l'è perfino inventata (almeno la sua, personale Resistenza) e questo non cambia di una virgola la sua forza e autenticità, perché "inventandola" da vero narratore ce l'ha restituita per quello che è stata: una tragica avventura umana, senza eroi e popolo, ma solo vittime.

Tutto il resto è il frutto del battibecco rancoroso delle nostre infelicità.